Malattie respiratorie, COVID-19 e olfatto

un questionario online e un consorzio internazionale

Screenshot_2020-04-14 GCCR

 

Continuiamo con qualche aggiornamento su olfatto e malattie respiratorie. Vi parlo di un progetto internazionale al quale ho aderito e di un questionario online a cui tutti possono partecipare a titolo volontario e che ci aiuta a raccogliere dati sulle possibili relazioni tra malattie respiratorie e alterazioni di gusto e olfatto.

In risposta alla casistica aneddodica registrata nelle ultime settimane e che riporta una perdita di olfatto e gusto in persone che hanno avuto COVID-19 (ve ne ho parlato nel post precedente), numerosi ricercatori specializzati sui sensi chimici si sono uniti per capire meglio in quali condizioni (come, quando e perché) ciò si verifichi. È nato così il Global consortium for chemosensory research (GCCR), un consorzio internazionale di scienziati che sta conducendo uno studio su scala globale per valutare le possibili relazioni tra malattie respiratorie (come per esempio COVID-19, influenza e raffreddori) e i loro effetti su gusto e olfatto.

Un modello open source

A questo progetto, diretto dagli scienziati (in ordine alfabetico) John Hayes, Thomas Hummel, Christine Kelly, Steven Munger, Masha Niv, Kathrin Ohla, Valentina Parma (Chair), Danielle R.Reed, Maris Veldhuizen, hanno aderito più di 500 ricercatori, clinici e operatori di diverso background che lavorano sui sensi chimici in 38 Paesi diversi. Si tratta di una collaborazione interdisciplinare e open source per facilitare i ricercatori di diverse discipline in diverse parti del mondo a collaborare e condividere dati, protocolli e ricerche per riuscire a studiare al meglio alcuni aspetti della relazione tra malattie respiratorie e problemi di gusto e olfatto.

Il GCCR ha creato perciò una piattaforma per condurre studi interdisciplinari e test trans-culturali su scala globale a disposizione di tutti gli scienziati che vi vogliano aderire e a tutti i pazienti che su base volontaria vogliano partecipare agli studi per sostenerne l’avanzamento.

Olfatto e gusto

Olfatto e gusto sono fortemente collegati e ciò che viene comunemente descritto come “gusto” fa in realtà riferimento al sapore o flavor di cibi e bevande, cioè la percezione combinata di gusto e aromi. Come è facile sperimentare anche durante un comune raffreddore, con il classico “naso tappato” non si percepisce bene il sapore dei cibi e così nella maggior parte dei casi i pazienti sperimentano o dichiarano un calo del gusto o del sapore anche quando in realtà si tratta di una disfunzione principalmente olfattiva. Anche per questo motivo è difficile avere una casistica accurata dell’impatto delle malattie respiratorie su olfatto e gusto separatamente.

Questa è una delle ragioni per cui il GCCR vuole investigare se la perdita di olfatto sia un sintomo frequente in caso di infezione da corornavirus e altre malattie respiratorie e se sia accompagnato anche a una perdita del gusto. Dal momento che molti aspetti del meccanismo con cui questa interazione avverrebbe e le sue modalità non sono ancora chiare servono ulteriori studi e, anche per questo motivo, l’OMS non ha ancora incluso la perdita di olfatto tra i sintomi di COVID-19.  Se c’è la possibilità che problemi a olfatto e gusto rientrino tra i sintomi di COVID-19 è ovviamente importante saperlo e documentarlo, ma per poterlo fare in modo attendibile servono numerosi dati e raccogliere il maggior numero possibile di casi clinici: è importante capire il tipo di correlazione, la diffusione e il decorso di questi eventi. Quindi più casi clinici e pazienti si registrano più elementi si hanno per fare delle stime attendibili da cui partire per fare delle ipotesi sperimentali sensate.

Questionario online

Al momento il primo obiettivo del GCCR è quello di definire e coordinare su scala globale la ricerca open-source e raccogliere, come dicevo, la casistica di malattie respiratorie come COVID-19 ed eventuali alterazioni di gusto e olfatto.

Per questo motivo è stato formulato un questionario online rivolto a tutti i pazienti che hanno o hanno avuto malattie respiratorie. Il questionario è disponibile sul sito ufficiale del GCCR in inglese, tedesco, italiano, francese, spagnolo e verrà presto tradotto in altre lingue. È su base volontaria e si compila in 15 minuti circa.

Il questionario, come è spiegato nella sua introduzione, non ha scopo diagnostico o di trattamento, ma serve agli scienziati per raccogliere informazioni sul tipo di sintomi che i pazienti con malattie delle vie respratorie presentano in relazione a olfatto e gusto.

Vi lascio qui sotto tutti i link e i riferimenti e se vi va diffondete il questionario a tutte le persone alle quali pensate possa interessare (Grazie!).

 

Contatti e informazioni:

Qui trovate il sito ufficiale GCCR (in inglese),

dove c’è anche il link per fare il questionario: basta che cliccate su “italiano” e poi sulla freccina in basso a destra; il sito è in versione beta e stanno lavorando sul suo miglioramento per cui l’estetica al momento è basica ma si è preferito renderlo subito accessibile per velocizzare i tempi di raccolta dei dati.

Per ulteriori informazioni potete scrivermi: smelling@perfectsenseblog.com

mentre questa è l’email del consorzio: gccr.italia@gmail.com

Potete poi seguire il GCCR sui social

twitter: https://twitter.com/GCChemosensoryR

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#GCCR #gusto #olfatto

e come al solito i miei aggiornamenti su Instagram.

Blu mandorla

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Colore dell’anno 2020

 

Il colore del 2020 sarà il blu, Classic Blue (Pantone) per la precisione. Un colore che piace a circa la metà della popolazione, almeno in Europa, e che viene solitamente associato a calma, quiete, relax. Un colore freddo, che placa gli spiriti.

Che odore ha il blu? A cosa potremmo associarlo?

Di solito associamo gli odori principalmente alla loro origine, anzi questa diventa spesso il retino linguistico con cui cerchiamo di acciuffare un odore quando lo annusiamo e non sappiamo dargli un nome: sa di banana, sa di cavolo, sa di mare. E a volte funziona pure. Siamo in una stanza, e se sentiamo puzza di bruciato ci allertiamo perché presumibilmente qualcosa che non dovrebbe sta arrostendo;  sentiamo un odorino fragrante per strada e dopo pochi metri ci imbattiamo in un panificio. L’esperienza ci guida e ci insegna, così è facile associare un odore alla propria fonte, tanto che nel nostro cervello le due cose diventano indivisibili: quell’odore è la banana, il cavolo, il mare.

Di conseguenza, se dobbiamo associare dei colori agli odori che annusiamo, tenderemo, anche in questo caso, ad associarvi l’odore della possibile sorgente odorosa: giallo come la banana, verde come il cavolo, blu come il mare.

È un fatto universale? Facciamo tutti questo tipo di associazioni?

Prendiamo, per esempio, la mandorla. Durante alcuni esperimenti del 2012 gli scienziati osservarono che in Canada essa viene associata soprattutto al colore rosso. Tuttavia, in Australia, il campione di volontari esaminato la associava al colore blu.

Tra gli studiosi di linguaggio vi è un ampio dibattitto sulle basi neurolinguistiche del nostro linguaggio: si cerca cioè di capire come nasce il nostro modo di creare e mettere insieme le parole, se vi è una modalità universale di base, data dalle nostre strutture cerebrali (come dice, semplificando un po’, il padre della linguistica Noam Chomsky) a cui poi seguirebbero differenze di tipo semplicemente culturale, oppure si tratti di differenze presenti già a livello neurobiologico.

Molti dei dati raccolti dai ricercatori al momento propendono per la teoria di Chomsky; e poi vi è la faccenda degli odori e dei colori: insomma la mandorla perché per qualcuno è rossa e per altri è blu?

Anche per capire questi fatti, gli esperimenti di alcuni gruppi di ricerca si sono orientati, soprattutto negli ultimi anni, su analisi cross-culturali, cioè mettendo a confronto popolazioni e culture diverse, e cercare di venire a capo del perché popolazioni differenti sembrino avere apparentemente anche un uso del linguaggio molto diverso: ci sono parole che esistono solo in determinate lingue, ci sono descrittori di colori e odori che si trovano in alcune lingue ma non in altre. E, cosa ancora più affascinante, l’uso di una lingua o di un’altra sembra influenzare la percezione stessa di odori e colori.

Facciamo un esempio pratico:

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Osserva i due cerchi con tasselli colorati a destra e a sinistra e indica quello con il tassello azzurro.

Guardando i colori in questa immagine per la maggior parte degli occidentali sarà abbastanza semplice individuare quella con il tassello di colore diverso. Invece, in alcune osservazioni pubblicate già in uno studio del 2005 i ricercatori riportarono che gli Himba della Namibia (Africa) hanno un diverso sistema di classificazione dei colori e di fronte a questa stessa immagine non individuano il tassello diverso. Una cosa analoga succede anche altrove, per esempio, tra i cinesi che parlano mandarino e i gli abitanti della Mongolia. E di casi simili ce ne sono svariati. Nel caso degli Himba, per esempio, le parole per descrivere alcuni tipi di verde e di blu sono uguali e dopo diversi studi i ricercatori sono giunti alla conclusione che sia il linguaggio a “dirigere” la scelta percettiva: insomma nel caso dei tasselli colorati anche gli Himba vedono al diversa tonalità di colore ma considerano quel “blu” non poi così diverso dagli altri tasselli che, ai nostri occhi sono decisamente più verdi, perché nella loro lingua sono indicati con la stessa parola.

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Ché poi, a volerla dire tutta, anche in Europa un tempo il blu non era proprio percepito come facciamo noi oggi.

Durante Medioevo e Rinascimento e fino al XVII secolo, gli europei classificavano il blu come un colore caldo e non freddo come facciamo noi oggi. E sulle cartine geografiche i mari erano rappresentati in verde e non in blu. Di conseguenza il mare “era” verde non blu come lo descriviamo oggi nella maggior parte dei casi.

È cioè il comparto socio-culturale e linguistico a dirigere e influenzare la percezione.

Questo fenomeno nel caso degli odori è ancora più spiccato e, come dimostrato da molti studi tra i quali quelli della neurolinguista Asifa Majid e dei suoi collaboratori, popolazioni diverse hanno capacità di descrivere gli odori diverse, e ciò è influenzato principalmente dalla lingua e ha una base culturale. L’esempio più eclatante è dato da alcune popolazioni indonesiane, come i Maniq, con un linguaggio olfattivo ricco, variegato, preciso e molto più astratto del nostro: nel loro caso le persone non riconducono necessariamente un odore a un possibile oggetto-sorgente dell’odore stesso.

L’apoteosi sensoriale di tutta questa faccenda è come i colori influenzino anche la percezione olfattiva. Si è visto, per esempio, che odori intensi o un po’ irritanti vengono associati a colori più intensi e brillanti, e gli odori più familiari sono associati anche a colori più saturi.

Ciò che percepiamo e come descriviamo aromi e odori dipende da molte cose e ne sanno qualcosa sommelier e degustatori…

Bonus

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Visto che siamo in periodo di festeggiamenti se voleste essere anche in tinta con l’anno nuovo ricordiamoci che esiste il vino blu. Messo in commercio già nel 2016 dall’azienda spagnola Gik, fu subito molto criticato dagli esperti di vino poiché, tra le altre cose, il colore deriva dall’aggiunta di dolcificanti e coloranti. I produttori sostengono invece si tratti di innovazione, al momento però per la regolamentazione europea no può essere venduto con la denominazione di “vino” e la vicenda è ancora dibattutta legalmente (dal 2017, non credo sia ancora stata risolta).

Letture e bibliografia

  • Blu. Storia di un colore; di Michel Pastoureau (Autore), F. Ascari (Traduttore).
  • Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo; di Riccardo Falcinelli.

  • Stevenson RJ, Rich A, Russell A (2012) The nature and origin of cross-modal
    associations to odours. Perception 41: 606–619.
  • Spector F, Maurer D (2012) Making sense of scents: the colour and texture of odours. Seeing Perceiving 25: 655–677.
  • Asifa Majid, Nicole Kruspe (2018) ReportHunter-Gatherer Olfaction Is Special. Current Biology28, 409–413.
  • Roberson D, Davidoff J, Davies IR, Shapiro LR. (2005) Color categories: evidence for the cultural relativity hypothesis. Cogn Psychol. 50(4):378-411.

 

Se al cavolo piace Čechov – When cabbage loves Chekhov

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Cabbage Installation at Mediamatic, Amsterdam. Credit: perfectsenseblog.

 

Ho amato molto il mio appartamento quando vivevo a Trieste; appena trasferita ci vollero circa due mesi per far andar via l’odore di cavolo che lo possedeva. Sembrava essere una parte strutturale delle mura, o forse lo era davvero perché quell’odore, per la verità, non andò mai via del tutto.

E quindi, seppure allora dichiarai guerra aperta al cavolo in ogni sua forma ed espressione, ora quell’odore in qualche modo mi è caro.

La lotta all’odore di cavolo è una faccenda su cui non si scherza, e ci sono diverse ricerche per capire come cammuffarlo, contenerlo, cancellarlo, eradicarlo. Alcune di queste riguardano in particolare quello ornamentale, avete presente quei fiori un po’ “strani” – per chi non li ha mai visti – che girano in autunno, violacei, dall’aspetto di lattuga riccia con gambo lungo? Quelli. Chiunque li abbia avuti in casa almeno una volta conosce bene la fragranza pestilenziale di cui si riempie la casa se poco poco ci si dimentica di cambiargli l’acqua…

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La questione dunque è questa: sti fiori sono tanto belli e decorativi quanto malefico è il loro odore dopo qualche giorno, e i giapponesi, che di piante e fiori ornamentali se ne intendono, e guarda caso ne fanno largo uso, hanno cercato il modo di ottenere fiori meno puzzolenti. Che poi, il problema riguarda anche le nostre parti, visto che ora vanno di moda, e l’Olanda ne è il maggior produttore europeo.

Forti di queste esigenze, nel 2014 i ricercatori del NARO Institute of Floricultural Science di Tsukuba e del Plant Breeding & Experiment Station (Takii & Company) di Konan, in Giappone, hanno fatto una ricerca sugli odori del cavolo ornamentale Brassica oleracea (var. acephala f. tricolor). Dalle loro analisi, fatte con gas cromatografia e spettrometria di massa, hanno potuto “catturare” e analizzare gli odori emessi dai fiori recisi e dall’acqua dei loro vasi.

Intermezzo

 

In Giappone la sensibilità per odori e fragranze è abbastanza diversa da quella Occidentale: profumi e odori sono molto apprezzati e il loro uso ha una lunga tradizione (gli incensi per esempio), tuttavia vengono usati in modo diverso, si prediligono fragranze più tenui e non “aggressive” o squillanti, e, soprattutto, si cerca di non turbare e disturbare gli altri in pubblico con i propri odori, di qualunque natura essi siano. Per i vegetali succede un po’ la stessa cosa, e di fatti anche fiori, come per esempio i narcisi, dall’odore gradevole, ma piuttosto intenso, sono apprezzati nei giardini all’aperto, ma non vengono usati per decorare ristoranti e luoghi pubblici perché l’odore è considerato troppo forte.

E ora immaginatevi quanto possa essere delicata da quelle parti la gestione del cavolo decorativo.

 

L’odore del cavolo

 

Dalle analisi sono emerse alcune molecole non proprio nuove: il dimetildisolfuro, emesso dal fiore e dall’acqua dei vasi, e il dimetiltrisolfuro, isolato solo dall’acqua. Il che non ha sorpreso particolarmente gli scienziati visto che queste molecole hanno un curriculum di tutto rispetto: sono, per esempio, tra le responsabili della puzza di diverse crucifere (cavolo, broccoli, broccoletti di Bruxelles, etc) e della cipolla.

Insieme a questi, dai fiori hanno isolato anche:

– α-pinene: odore di pino

– β-pinene: odore di trementina

– 2-esanale: odore fruttato

– metiltiocianato: odore dolciastro

Mentre dall’acqua dei fiori:

– allilisotiocianato: odore pungente tipo senape

– 3-metil tiopropil isotiocianato: odore irritante un po’ pungente tipo rapa o rapanello

– metil metiltiometildisolfuro: odore solforoso simile all’aglio e al cavolo cotti.

Queste le principali, bisogna poi tenere presente che dalle quantità in cui queste molecole sono presenti e come si “mescolano” insieme emerge l’odore complessivo.

 

Come ridurre le emissioni?

 

Capito quali sono i principali componenti dell’aroma di cavolo rimaneva da trovare un modo per ridurne le emissioni, insomma uno stratagemma per farli puzzare meno. A parte il saggio consiglio di cambiare spesso l’acqua dei vasi, gli scienziati hanno anche studiato alcune delle vie metaboliche che producono le sostanze odorose del cavolo: l’idea è che bloccando una di queste vie, si bloccherebbe o almeno ridurrebbe la produzione della o delle molecole puzzolenti, e si avrebbe un fiore che non fa puzzette e, quindi, più presentabile in società.

Dagli esperimenti di questi ricercatori pare che l’uso di inibitori della sintesi del  dimetildisolfuro (Cyprodinil e aminooxyacetic acid) non servano granché; al contrario, germicidi isotiazolinonici, usati in genere per far mantere più a lungo i fiori recisi, funzionano riducendo le emissioni di dimetildisolfuro del 30-40%.

 

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Anastasia Loginova listening to cabbage. Credit: Mediamatic.

Bonus

E poi c’è chi i cavoli li ama, al punto di mettersi a recitare per loro brani di Čechov e Tolstòj, come l’artista Anastasia Loginova. Succede al Mediamatic di Amsterdam, un’istituzione culturale che si occupa di arte, design e scienza e delle possibili intersezioni tra queste discipline in relazione all’ambiente e alla società. Ci sono stata recentemente e il programma invernale ha una sezione dedicata proprio al cavolo e come usarlo: Pare che la scorsa stagione il raccolto di cavoli sia stato perticolarmente abbondante, cosa fare dell’eccedenza? Il team di Mediamatic a risposto a proprio modo recuperandola e organizzando delle attività a tema per una riflessione sul cibo e come gestire a livello locale le eccedenze. Partendo da questo hanno organizzando incontri e workshop a tema (per esempio come fare il Kimchi – la versione giapponese dei crauti per capirci), menu a base di cavolo nel loro bistrot, e installazioni artistiche. Scopri così virtù e meraviglie di questo ortaggio: avete presente il suono dei pugni nei film di kung-fu? Ecco il suono migliore lo fanno con i cavoli.

 

When cabbage loves Chekhov

When I was in Trieste my flat was one of the things I loved most; at the beginning it was embedded in an awful cabbage odor. It toked me two months to get rid of that, yet after a while it was there. I embraced a cruel bat against that odor which now felt like a dear one.

Going against cabbage odor is a serious stuff, people try to cancel, undermine, reduce, get rid of it. Take the ornamental cabbage for example, it is not an easy guy, as you shall see if you try to keep it in the same water for more than 2-3 days… so, some researchers are working on that.

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Scientists from NARO Institute of Floricultural Science, Tsukuba, and Plant Breeding & Experiment Station (Takii & Company), Konan, Japan, made some studies on the ornamental cabbage Brassica oleracea (var. acephala f. tricolor) in order to find out the main odorants and how to fight them.

Researchers analyzed with gas chromatography-mass spectrometry techniques the air emitted by the cabbage-flower and coming from the vase water. It turns out most of pestilent odor comes from two well-known molecules: Dimethyl disulfide and Dimethyl trisulfide. These molecules are also responsible for the aroma of other cabbage-relatives (broccoli, Brussels sprout, etc.) and onions.

Other odorants isolated, though at the end they all blend together in the characteristic aroma:

  • α-Pinene odor of pine;
  • β-Pinene: turpentine-like
  • Methyl thiocyanate: Unpleasant and sweet odor
  • 3-Methyl thiopropyl isothiocyanate: Raddish-like
  • Allyl isothiocyanate: Mustard-like pungent odor

Researchers questioned also how to get rid or reduce the production of such molecules, and they find out that isothiazolinonic germicide, the same used to preserve cut-flower, is the most effective, along with the good habit of changing often the vase water…

Bonus

In defense of cabbage we must say it stinks mostly when is cooked (or overcooked) and the stinky molecules get released, but there are plenty ways to make it appetible and tasty,  for example just roasted, and in sauerkraut or kimchi (the Japanese way).

And we have people who love talking to cabbage and reading Russian literature to it as artist Anastasia Loginova does during her perfomances at Mediamatic in Amsterdam (on their website you find the full program). The cultural institution is hosting for winter season a series of workshop, installation and talk about cabbage. I was there recently and it is amazing to see and learn how many things you can do out of it. Did you know the best Kung-fu sound is made with cabbage?

 

Reference: Kishimoto et al., Odor Components and the Control of Odor Development in Ornamental Cabbage. J. Japan. Soc. Hort. Sci. 83 (3): 252–258. 2014

Il gusto dell’acqua – If the mouse drinks light

Water

Che sapore ha l’acqua? Certo dipende, perché naturalmente a seconda dell’area geografica in cui ci troviamo, laghi, fiumi, pianure, montagne – bere, per esempio, l’acqua di Bergamo, vicino alle Orobie, è decisamente diverso dal bere quella delle zone sul Carso o ancora da quella della pianura padana (esempi non casuali dal mio catalogo esperienziale 😀 ). Però a parte questo, l’acqua “da sola”, priva di tutti questi “condimenti” geologici e ambientali, che sapore ha? Se dovessimo assaggiare dell’acqua demineralizzata per esempio, saremmo capaci di percepire alcuna sensazione o sapore caratteristici?

Le rane per esempio, hanno recettori per l’acqua, ma anche nelle pecore e nei gatti l’acqua evoca specifiche risposte nei nervi faciali che innervano la cavità orale. E pure il moscerino della frutta Drosophila melanogaster, che ha per molti aspetti un sistema gustativo analogo a quello dei mammiferi, ha recettori per l’acqua. Gli scienziati cercano perciò già da un po’ di capire quanto questa cosa sia diffusa negli animali e se nei mammiferi, oltre ai recettori per il gusto che già conosciamo – salato, dolce, amaro, acido e sapido (umami) – ce ne siano di specifici per l’acqua, vista la sua importanza per la sopravvivenza. Uno studio pubblicato pochi giorni fa (29 maggio 2017), sulla rivista scientifica Nature Neuroscience, suggerisce di sì, almeno nei topi.

La lingua allo specchio

Vi siete mai guardati la lingua? Viene più facile se, per esempio, avete bevuto del succo di mirtillo, o potete provare anche con un ghiacciolo vista la stagione, perché lasciano la lingua “colorata” ed è così più facile osservarne la superficie. Perlustratela e dimenticate l’immagine dei vecchi libri con la lingua divisa in zone a seconda del gusto (purtroppo la si trova ancora in alcuni libri e in rete ma è sbagliata!). Vi troverete di fronte a una distesa irregolare di piccole formazioni papilliformi, le papille gustative. Queste sì, hanno forme diverse distribuite in zone diverse: le fungiformi verso la punta e il centro della lingua, le foliate ai lati più posteriormente e le circumvalate sul fondo. In tutte però ci sono delle strutture, spesso fatte “a calice” diciamo, formate da cellule specializzate per riconoscere i sapori. Ogni calice è formato da gruppi di diverse cellule recettoriali ognuna sensibile a uno dei “gusti”- base, e perciò ogni papilla è in grado di rispondere più o meno a tutti i sapori indipendentemente do dove sia posizionata sulla lingua.

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Cellule recettoriali gustative. Da: Yarmolinsky et al., Cell 139, October 16, 2009.

Alcuni recettori rilevano il gusto acido. Su queste cellule ci sono proteine specializzate, una famiglia di recettori TRC, che si attivano appunto quando mangiamo cose dal sapore acido. Non si sa ancora bene come funzionino, la presenza di protoni (H+) in soluzione attiva questi recettori-canale e si pensa reagiscano quindi al cambio di pH circostante. Quando i recettori vengono attivati, il segnale viene trasmesso alle terminazioni nervose della lingua, in particolare alla chorda tympani, un ramo del nervo faciale (il nervo cranico VII) che innerva la parte anteriore della lingua e riceve le informazioni gustative da mandare al cervello.

I ricercatori hanno scoperto che questi recettori per l’acido vengono attivati anche dall’acqua. Il meccanismo di funzionamento non è ancora del tutto chiaro, ma i dati raccolti fino ad ora danno alcune indicazioni. Una delle ipotesi più gettonate al momento è che il passaggio dell’acqua sulla lingua rimuoverebbe lo strato di saliva sulle papille. Siccome la saliva è fatta al 99% di acqua, ma contiene anche diverse altre sostanze, sali ed enzimi, e ha un pH caratteristico, quando viene “sciacquata via” dall’acqua le cellule delle papille si ritrovano a contatto con un liquido, e un pH, diversi, e questo cambio attiverebbe i recettori. In questo modo l’acqua può essere percepita dal cervello immediatamente senza dover aspettare i segnali del resto del sistema digerente.

Se i topi bevono la luce

Come hanno fatto i ricercatori a scoprire questo fatto? C’erano già diverse evidenze scientifiche e dati che supportavano l’ipotesi di recettori sulla lingua sensibili all’acqua. Come prima cosa, quindi, bisognava accertarsi di questa cosa, e verificare la presenza di recettori capaci di rispondere all’acqua in modo specifico: testando i diversi recettori gustativi, nei topi, i ricercatori hanno osservato che solo quelli per l’acido, e non gli altri, si attivavano con l’acqua, ma non con altre sostanze simili. Inoltre, anche la chorda tympani riceveva quello stimolo, confermando che la presenza di acqua veniva effettivamente trasmessa per via gustativa. A questo punto c’era da verificare se davvero i recettori per l’acido fossero i responsabili. I ricercatori hanno fatto perciò un’altra serie di esperimenti osservando che nei topi privi di questi recettori la risposta all’acqua non c’era e gli animali non riuscivano a distinguere tra l’acqua e un’altra sostanza oleosa. Ora mancava un altro tassello: se quei recettori erano davvero capaci di attivarsi con l’acqua, ciò significava che una volta attivati, l’animale avrebbe dovuto comportarsi come se stesse bevendo, cioè percependo l’acqua. E gli scienziati hanno verificato proprio questo. Con la luce.

Con una tecnica chiamata optogenetica è possibile rendere specifiche cellule sensibili alla luce, un po’ come i recettori per la vista, e si possono così attivare artificialmente. In questo caso i topi avevano i recettori TRC per l’acido modificati in modo da poter essere attivati con la luce. Se questi recettori erano davvero i resposabili della sensazione per l’acqua, i topi, stimolati sulla lingua con la luce, avrebbero dovuto avere la stessa reazione che se stimolati con l’acqua. E ha funzionato proprio in questo modo. I topi avevano a disposizione un abbeveratore modificato che invece di rilasciare acqua emetteva luce quando l’animale andava a leccare per bere. I topi leccavano dalla bottiglia come se stessero bevendo normalmente e percepivano la sensazione gustativa dell’acqua anche se la lingua era stimolata solo con la luce. Questo esperimento ha così confermato che effettivamente i recettori TRC per l’acido mediano anche le risposte all’acqua. Si tratta ora di capire meglio come funziona questa attivazione.

Sensing water

If we take a closer look at our tongue we will discover a fascinating landscape covered by hundreds papillae of different shapes. There is where actually the sense of taste starts, where begins the rich savory feeling of our meal, the acidity of a soft drink, the bitterness of our black coffee, the sweetness of our favorite cake, or the effects of a too generous spoon of salt dropped in our soup. There is where we can taste water too. How does the water taste like?

It was already known from scientist that invertebrates like Drosophila melanogaster has specific receptors to sense water, and in frog, sheep, and cat,  the facial nerves who receives taste information get activated by water as well. Now it turns out that receptors TRC for sour taste are able to detect water.

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The mouse who drank water

Scientists just find that on a study published last month on the scientific journal Nature neuroscience. How does it work? They recorded the physiological activity of the facial branch nerve for taste, chorda tympani, during water stimulation; moreover they observed that the TRC-receptors for sour taste were specifically activated by water. The second step was to test for these receptors, therefore using genetically modified mice, scientists observed that animals without those receptors where unable to detect water and they could not distinguish water from other oleose substances. Finally, researcher tried to stimulate such receptors artificially to test if they were able to induce in animals a “drinking” behavior like drinking-water. And it worked out. Using a genetically modified mouse who has sour-receptors TRC sensible to light (like, say, sight receptors), scientists could activate them through light instead of using water. The mouse had a modified beverage disposable releasing light, not water: the animal approached and licked the bottles drinking “normally” and experiencing “water-taste”, although the tongue was stimulated by light only. That could prove that sour receptors actually mediate water-detection as well, in a taste-like manner.

Regarding the mechanism and how this activation works there are still some speculations. One of the most accepted hypotheses is that the receptors sense the change of pH in their environment, which is normally made by the characteristic saliva  composition, and pH. When we drink, water transiently washes out the saliva layer that covers the taste buds and the receptors “feel” that change sending a signal to the brain. It is a mechanism efficient and easy for the body to detect quickly the presence of water, but we need now further prove.

Bonus