Un aroma divino – terza parte

O sugli effetti del cioccolato

Consumandone una decina di kg pro capite, chilo più chilo meno, testa più testa meno, all’anno (dato del 2011), gli svizzeri sono in cima alla lista internazionale di chi mangia più cioccolato. Subito seguiti da tedeschi e inglesi. Correlazione curiosa, gli svizzeri hanno anche il più alto numero di premi Nobel.

 

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Questa correlazione è venuta fuori da uno studio pubblicato (sì succede anche nelle migliori famiglie) sul New England Journal of Medicine nel 2012 e di cui si è un po’ parlato in rete e su diverse riviste vista la faccenda piuttosto esotica. Intanto specifichiamo subito una cosa fondamentale: una correlazione tra due eventi o due fenomeni NON implica necessariamente un rapporto di causa-effetto tra i due; è come osservare che durante il corso dell’anno i picchi del consumo dei gelati e degli annegamenti si registrano entrambi ad agosto, e da questo dedurre che il consumo di gelati causi l’aumento degli annegamenti (ma a quel punto uno potrebbe fare anche la deduzione inversa e pensare sia l’aumento del numero di annegamenti a far aumentare il consumo di gelati, sai te, a scopo consolatorio :D). Eppure in fallacie logiche di sto tipo ci si casca in continuazione. Ad ogni modo, gli svizzeri il cioccolato e i premi Nobel dicevamo.

In questo studio gli autori si sono messi a cercare i fattori che aumentano la probabilità di prendere un premio Nobel – come se ci fosse una ricetta per ingegno e creatività, vabbé. Al cioccolato viene spesso attribuito un ruolo benefico per una serie di funzioni dell’organismo, tra le quali vedi un po’, quelle cognitive perché contiene flavonoli. Da questa osservazione – pure lei non proprio dimostrata – il volo pindarico degli autori a vedere se quindi c’è una relazione tra il consumo di cioccolato e appunto i premi Nobel. Qui arriva il dato statistico sugli svizzeri: sono quelli con più premi Nobel e che mangiano più cioccolato di tutti; deduzione: deve essere il cioccolato che fa vincere i premi Nobel (a me intanto date una dose di Xanax per favore). Che uno in un primo momento quasi quasi dice perché no? Perché, intanto il concorso di eventi e fattori che portano a un premio Nobel sono molti di più e non sempre ovvi e, quindi, semplificazioni così grossolane proprio non si possono fare; e poi il metodo con cui è stato fatto il confronto: una per tutte, per confrontare due gruppi – in questo caso i “vincitori di premi Nobel” e i “mangiatori di cioccolato” – bisogna quanto meno che i due gruppi siano confrontabili, mentre in questo caso i due gruppi non lo sono affatto: quello “premi Nobel” era composto da tutti i vincitori dal 1900 al 2011, mentre quello “consumatori di cioccolato” includeva solo quelli di quattro anni a partire dal 2002. E poi, come dicevamo, il fatto che tra i due eventi osservati ci sia una correlazione, non significa che uno sia causa dell’altro. Potremmo fare un gioco e vedere quante correlazioni simili a questa riusciamo a trovare. E potremmo considerare che di flavonoidi sono ricchi anche il the e il vino per esempio. Chissà quanti Nobel si nascondono dietro ai bevitori di un certo livello 😀

Del cioccolato si dicono davvero tante cose: aiuta a concentrarsi, è antidepressivo, è un po’ come una droga, è afrodisiaco, è tossico per alcuni animali. C’è qualcosa di vero in queste affermazioni?

Nel cioccolato ci sono più di quattrocento composti, molti dei quali contribuiscono a determinare il suo caratteristico aroma, e diversi nutrienti e sostanze che, in certe dosi, possono effettivamente avere degli effetti fisiologici. Importante: quali dosi? Dire, per esempio, che il cioccolato contiene ferro – affermazione vera – di per sé non è molto informativa. Quanto ne contiene? E qual è la quantità minima giornaliera necessaria al corpo umano? La Società Italiana di Nutrizione Umana (se ne parla anche qui a proposito di fantomatici nutrienti nel sale rosa) consiglia alle donne in gravidanza di assumerne circa 27 mg al giorno, 18 mg alle altre donne adulte, 10 mg al giorno agli uomini adulti. 100 g di cacao contengono circa 10,5 mg di ferro, per cui sì possiamo affermare che effettivamente il cacao ha, per noi, un ottimo contenuto di ferro. Ora fate voi i conti: se voleste avere un apporto giornaliero di ferro decente solo dal cacao, ne dovreste mangiare ogni giorno circa 100 g, che corrispondono su per giù al peso di una stecca di cioccolato. Ricordate però che il cioccolato in stecca non è cacao puro, quindi ne dovrete mangiarne un po’ di più. E tenete presente che ha un elevato contenuto calorico: il cacao è fatto per circa 55% di grassi, durante la preparazione, come vi avevo raccontato la scorsa volta, buona parte del burro di cacao viene separato, ma non tutto. Inoltre spesso nella produzione delle barrette di cioccolato si aggiunge altro burro di cacao. Valutate voi quanto mangiarne.

E gli antiossidanti invece? Anche di questi il cacao ne ha diversi, soprattutto polifenoli come catechine e loro derivati oligomerici. Di alcune di queste sostanze si è osservato effettivamente un aumento nel sangue in seguito ad assunzione di cioccolato nero, in animali di laboratorio. Per l’uomo come al solito non è da escludere un certo beneficio, ma di nuovo, quanto cioccolato devo mangiare per avere questo beneficio?

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Nel cioccolato ci sono anche teobromina (l’albero di cioccolato si chiama Theobroma cacao) e caffeina, alcaloidi con un effetto eccitante del sistema nervoso centrale. La teobromina soprattutto ha diversi effetti fisiologici e in alcuni esperimenti i ricercatori hanno osservato che l’assunzione ripetuta per 7 giorni di una dose di 500mg/Kg di peso corporeo, faceva diminuire la produzione di sperma, nei ratti. Gli umani possono permettersi di assumerne un po’ di più: un uomo per raggiungere la stessa dose dovrebbe consumare una cosa come circa 50 barrette di cioccolato al giorno. La dose letale di teobromina per l’uomo è invece stimata intorno ai 1000 mg/Kg di perso corporeo. In una stecca di 100 g di cioccolato al latte ci sono circa 200 mg di teobromina. Diciamo che un uomo del peso di 70 Kg se volesse suicidarsi mangiando cioccolato dovrebbe prepararsi una merenda con 35 kg di cioccolato al latte, magari qualcosina meno se ama il fondente.

alcaloidi

Diverso è il discorso per altri animali, come i cani di piccola taglia. Per loro, siccome la metabolizzano molto lentamente, la dose tossica di teobromina è di circa 100mg/kg di peso corporeo, cioè per un cagnetto di 10 kg una barretta di cioccolato può essere pericolosa e dare vomito, diarrea e tachicardia.

In passato era diffusa l’idea che il cioccolato potesse dare l’emicrania. L’indiziato principale era la feniletilamina, ma quella contenuta nel cacao pareva non essere sufficiente a dare alcun effetto fisiologico. Facendo degli esperimenti in doppio cieco, gli scienziati notarono un’altra cosa: l’assunzione di cioccolato era spesso associata a situazioni di stress e ciclo mestruale. E’ molto probabile quindi che la causa dei mal di testa fosse lo stato fisiologico e/o di stress dei soggetti, condizioni in cui però spesso si ha voglia di cioccolata e di altri cibi gratificanti. Infatti è dimostrato da numerosi studi sul craving a la compulsione a mangiare cioccolato, che il consumo di cioccolato ha un effetto psicologico e placebo nell’ alleviare lo stress.

Quando gli spagnoli portarono il cacao in Europa iniziò a circolare la voce che fosse un potente afrodisiaco, e questa nomea il cioccolato ce l’ha ancora, insieme all’idea possa avere altri effetti psicotropi. Nel 1983 lo psichiatra Michael Liebowitz, della Columbia University, pubblicò pure un libro, The chemistry of love. Nel libro sosteneva che triptofano e feniletilamina, di nuovo, fossero i responsabili di questo effetto. Il triptofano, è un aminoacido dal cui metabolismo si forma un neurotrasmettitore, la serotonina, coinvolto nella regolazione del tono dell’umore; e la feniletilamina, è un composto attivo con struttura simile alle anfetamine, e nel cervello agisce aumentando gli effetti della dopamina, coinvolta nelle sensazioni di piacere e benessere. La feniletilamina, in effetti, nel cioccolato è presente in concentrazioni di 0.4-6.6 microgrammi per grammo di cioccolato (1 microgrammo= 0.001 grammo), che potrebbero anche bastare a produrre degli effetti fisiologici. C’è pero un dettaglio da considerare. Il cioccolato, una volta mangiato, come tutti i cibi, viene digerito e durante questo processo alcuni enzimi specializzati, le monoamino ossidasi (MAO), metabolizzano le sostanze come appunto la feniletimanina. Di conseguenza, una volta digerito il cioccolato, di feniletilamina e triptofano, al cervello ne arrivano ben pochi. Non conosco le vostre abitudini, ma a meno che non assumiate il cioccolato in altri modi, se lo mangiate potete escludere eventuali effetti afrodisiaci, psicotropi e di altra natura. E poi il fatto che sia buono non è sufficiente? 😀

 

Bonus

A proposito di buono, poi non vi ho detto se alla fine a me il cioccolato di Modica è piaciuto oppure no.

L’ho provato in diverse varianti, tutte più o meno sul 75%, ‘liscio’ e aromatizzato al peperoncino, carruba, nero d’avola, gelsomino, nocciole, con sale. E sì l’ho rivalutato, mi è piaciuta la consistenza un po’ ruvida e il fatto che i sapori arrivino più “spezzati”. D’altra parte una delle differenze principali rispetto al fondente è proprio il fatto che non si sciolga immediatamente in bocca in modo omogeneo: le granulosità del cacao e dei grani di zucchero indugiano sulla lingua pungolandola un tantino mentre gli aromi si sprigionano in modo più scontroso, sembra quasi che ognuno, lo zucchero, il cacao, gli altri aromi, vogliano andarsene ognuno per fatti suoi, eppure restano insieme. Un po’ come una lotta feroce tra due che però si amano. Di tutti il mio preferito è stato quello al sale, figuriamoci. Lo provi, ti fa un effetto un po’ strano, sorpresa che non capisci bene, aspetta vah ne assaggio ancora un pezzettino, e poi, mah magari ancora un ciccinino, poi basta eh…

 

Per questo e i post precedenti sul cioccolato mi sono documentata qui:

 

E qui le bellissime infografiche di Compound Interest

 

Da molecola a odore

Mentre riorganizzo gli appunti e i pensieri del dopo congresso vorrei condividere con voi alcune riflessioni nate da uno degli interventi a cui ho assistito.

Stuard Firestein, professore alla Columbia University, ripropone un problema non banale: cosa fa di una molecola un odore? perché non tutte le molecole hanno un odore? e perché a volte molecole molto diverse tra loro sanno della stessa cosa?

Si tratta, se vogliamo, anche di una questione metodologica, perché si ripercuote sui criteri che decidiamo di adottare per classificare gli odori. Quali caratteristiche prendere in considerazione? Ci possiamo focalizzare sull’identità chimica di una molecola, su come è fatta, ma rischiamo però perdere di vista il suo significato biologico, ovvero il cosa fa. O possiamo concentrarci su caratteristiche più edonistiche e legate alla percezione. Rimane comunque un po’ di confusione: un colore è freddo o caldo, una nota acuta o grave, e un odore?

Per secoli filosofi e scienziati hanno provato a classificare gli odori in vario modo. Linneo (1756) nel suo Systema naturae li classificava in sette classi:

  1. Aromaticos, come il garofano per esempio
  2. Fragrantes, come i fiori
  3. Ambrosiacos, vedi il musk
  4. Alliaceos, come l’aglio appunto
  5. Hircinos, tipo l’odore di capra
  6. Tetros, dato da certi insetti (presente le cimici?)
  7. Nauseous, sul genere di carne putrefatta e simili

Col passare del tempo numerosi studiosi si resero conto di come fosse difficile raggruppare gli odori in poche classi, e che classificazioni simili a quelle di altri domini sensoriali, come per esempio i colori, primari e secondari, con gli odori avevano senso solo fino a un certo punto. Hendrik Zwaardemaker (1857-1930), che tra l’altro inventò un aggeggio (per quei tempi) come l’olfattometro (1888), identificò 30 diverse classi di odori. Scoprì pure un altro fatto: alcuni odori una volta mischiati tra loro si annullano. Ossia un odore previene la percezione di un altro odore. Sono coppie di Zwaardemaker, per esempio:

·        Acido butirrico – odore rancido- e olio essenziale di ginepro;

·        Scatolo – presente nelle feci – e l’olio di cedro;

·        Ammoniaca – odore di urina- e l’olio di rose.

 

Negli anni Cinquanta del secolo scorso Cerbelaud fu il primo a redarre una classificazione a uso e consumo dei profumieri dividendo gli odori in 45 classi. Pochi anni dopo, 1968, Harpeer fa un’ulteriore classificazione individuando 44 classi e compiendo una meticolosa opera di nomenclatura e classificazione includendo anche puzze e odori specifici di cibi e bevende. Questa lista nel 1978 viene estesa da Dravnieks a 146 odori, che in realtà corrispondono ad altrettanti descrittori olfattivi. In questo modo diventa più facile individuare “per confronto” le differenze tra due odori.

Tuttavia il problema rimane, prendiamo queste due molecole chimicamente diverse:

  • 5-alfa-androst-15-en-3 lafa-ol
  • 2-ethyl-4- (2,2,3-trimethyl-cyclopent-3- en 1-R-yl)-2E-buten-1-ol

Ecco, queste due robe qui sanno entrambe di sandlwood 😀

Come è possibile?

Prendiamo invece queste due molecole alifatiche, molto simili tra loro:

  • Hexil acetato
  • Heptil acetato

Queste due sanno una di banana e una di pera.

Ecro_Firestein_2015-09banana

Perché?

È quello che appunto ci chiediamo.

Una delle cose che restano ancora da capire è come funzioni il codice combinatorio molecole-recettori olfattivi. Nei roditori ci sono circa 1100 recettori, nell’uomo quasi 400. Ogni neurone olfattivo esprime un solo recettore, ma questo non significa che ogni recettore riconosce solo una molecola e finita lì. Ci sono alcuni recettori più specifici, ma sono la minoranza, nella maggior parte dei casi un recettore può riconoscere molecole diverse, con diversa affinità. E molecole diverse possono legarsi a diversi recettori. Questo è il motivo per cui si parla di codice combinatorio, ed ecco perché è importante capire quali caratteristiche di una molecola sono essenziali per uno specifico odore.

Una via di indagine, proposta da Firestein, è quella – detta in soldoni – di procedere con uno screening che integri l’aspetto puramente chimico con quello biologico: date una serie di molecole vado a vedere quale è il o i gruppi funzionali o la parte strutturale che mi dà lo stesso effetto biologico. È un metodo usato in chimica medica e per studiare l’attività farmacologica dei composti e si basa sull’idea di bioisosterismo, ossia di molecole con effetti biologici simili.

C’è anche da considerare un’altra cosa: un odore di per sé non esiste. C’è una molecola che si lega ai recettori olfattivi nel nostro naso, questi trasformano il segnale chimico in un segnale nervoso che arriva al cervello dove le informazioni vengono integrate e ci danno una percezione: l’odore.

Volendo andare un po’ sul filosofico verrebbe da dire che l’odore sta nel naso di chi annusa…

 

Bonus

La ricerca scientifica è fatta per lo più di esperimenti malriusciti. Non è quasi mai un percorso lineare ma procede a salti e tentativi, e non si procede quasi mai da soli: è la comunità scientifica che lavorando su un tema specifico porta avanti la baracca, ogni pubblicazione scientifica aggiunge un tassello a ciò che già si conosceva, magari contraddicendo altri dati, magari approfondendo alcuni aspetti. Difficilmente c’è ‘La scoperta scientifica” cosi’ come siamo abituati a immaginarla, ma una serie di osservazioni e dati che contibuiscono a chiarire aspetti specifici di un problema generale, per esempio come funziona o come avviene un certo meccanismo biologico.

In tutto questo come dicevo c’è tutto un mondo, quello dei fallimenti. Stuard Firestein, dopo averci parlato dell’importanza dell’ignoranza, esce ora con il secondo libro: Failure.

 

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L’odore dei sogni

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L’ambiguo cattura la nostra attenzione perché non è nitido e immediato. Pensate a un’opera d’arte, o a teatro: il gesto che cattura davvero ci proietta in una nuova dimensione, o ci permette di proiettavi la nostra, e lo fa perché non è una piatta replica della realtà, ma qualcosa che vi si avvicina, ha quel non so ché… sfuggente, terrifico, intrigante come i sogni, e gli odori. Sogni e odori sono entrambi effimeri, evocativi eppure così fisici nelle sensazioni che ci provocano: stiamo “solo” sognando, ma gioiamo, ci spaventiamo, sentiamo un groppo alla gola e il bisogno di urlare – ci svegliamo urlando, o ridendo –  rimaniamo solleticati da eventi surrealmente veri. Così come quando annusiamo qualcosa e una macchina esperienzale parte incontrollabile, magari non siamo capaci di descrivere quella sensazione, ma ci siamo immersi, completamente avvinti.

E gli odori possono influenzare sonno e sogni? Quando dormiamo il nostro naso russa solamente o è anche in grado di percepire gli odori?  E come reagisce il nostro cervello agli stimoli odorosi durante il sonno? Abbiamo più o meno tutti fatto l’esperienza di svegliarci improvvisamente a causa di un rumore o una luce accesa a sproposito, ma succede anche con puzze e profumi?
Intanto partiamo da una considerazione importante: nel sistema olfattivo le connessioni nervose tra i recettori olfattivi e il cervello seguono una via diversa da quella degli altri sensi perché saltano la stazione talamica e vanno dritte alla zona limbica e alla corteccia olfattiva. Più precisamente passano dal bulbo olfattivo alla corteccia olfattiva primaria e all’amigdala e da qui subito a ipotalamo e corteccia orbitofrontale. Tenete a mente.

Cosa succede quando dormiamo

Dalle evidenze sperimentali raccolte finora sappiamo che il sonno oltre a essere fondamentale per la sopravvivenza svolge un ruolo importante nel consolidamento della memoria. Mentre dormiamo in realtà il cervello è tutt’altro che in standby, continua a lavorare riattivando i circuiti nervosi legati alle cose appena apprese, una sorta di riverbero che serve al consolidamento delle informazioni. L’attività del cervello può essere monitorata e questo ha permesso di osservare l’alternarsi di diverse fasi del sonno che corrispondono a un diverso “stato” riconoscibile dal tipo di onde cerebrali prodotte. Le fasi di sonno profondo sono accompagnate da onde “lente”, a bassa frequenza, questa fase è chiamata anche Non-REM. La fase REM invece, quella durante la quale di solito sogniamo, è associata a onde rapide e a un caratteristico movimento riflesso dei bulbi oculari (da cui REM = rapid eye movement).
I ricercatori hanno condotto diverse ricerche per capire come funziona l’elaborazione delle percezioni sensoriali durante il sonno e proprio l’olfatto è per questo tipo di studi il senso più indicato. Perché?

Sonno e olfatto

Quando dormiamo nella quasi totalità dei casi un odore non è sufficiente a svegliarci. Non è come la sgommata in macchina del tamarro di passaggio che inesorabilmente interrompe il nostro sonno, di solito un odore anche se piuttosto intenso non è sufficiente a destarci. Quando succede è perché molti odori hanno anche una componente detta trigeminale che, siccome ci procura una sensazione di fastidio dovuta all’attivazione dei recettori per il dolore, ci sveglia. Diversi esperimenti hanno mostrato come la somministrazione di “odori puri”, che non prevedono l’attivazione della via trigeminale, non provocano in quasi nessun caso il risveglio dei soggetti. Uno dei motivi sembra dovuto proprio alla diversa anatomia delle vie olfattive rispetto agli altri sensi: ossia bypassano le stazioni del tronco encefalico e del talamo che sono coinvolte nei meccanismi di ‘risveglio’.
Ciò non significa che gli odori non vengano percepiti mentre dormiamo, anzi…

28OBOX2-articleLargeCredit: Kate Yandell

Siccome possono essere percepiti senza svegliare il soggetto gli stimoli odorosi sono perfetti per studiare come vengono elaborate le percezioni nel cervello durante il sonno. Certo non si tratta di esperimenti facili da controllare perché i volontari sottoposti ai test oltre ad avere un sonno regolare non devono avere nessuna percezione dell’odore prima e dopo la dormita, per evitare condizionamenti e introdurre variabili che influenzerebbero i risultati. Anche perché la percezione e l’attribuzione di un odore sono correlate al grado di consapevolezza che si ha dell’odore stesso e alla sua familiarità.

Il nostro naso fa un’altra cosa interessante mentre dormiamo: in presenza di un odore modifica le proprie sniffate. Il senso dell’olfatto è strettamente associato al respiro perché è durante l’inspirazione che insieme all’aria inaliamo le sostanze odorose. Se ci pensate anche da svegli quando ci concentriamo su un odore o lo vogliamo sentire meglio iniziamo a sniffare più intensamente e aumentiamo il ritmo del respiro. Alcuni esperimenti hanno mostrato che questo avviene anche quando dormiamo: odori classificati come “piacevoli” fanno aumentare la frequenza respiratoria e, viceversa, odori “sgradevoli” la fanno rallentare.

Tenendo conto anche di queste caratteristiche dell’olfatto i ricercatori del gruppo di Noam Sobel un paio di anni fa hanno condotto una serie di esperimenti per capire se fosse possibile indurre un apprendimento condizionato durante il sonno. Avete presente Pavlov e il cane? Diciamo che questa è una rivisitazione dello stesso principio: l’apprendimento di uno stimolo viene associato a un altro. Gli scienziati si sono detti: associamo dei suoni (un tono, sottosoglia per non svegliare il soggetto) a due diversi tipi di odori, piacevoli e sgradevoli, e vediamo se vi é apprendimento oppure no. In altre parole durante il sonno viene somministrato un suono e subito dopo un odore. Dopo un po’ di ripetizioni se abbiamo imparato ad associare un certo suono a un odore, il suono da solo sarà sufficiente a provocare in noi l’attesa dell’odore associato. Come capire se c’è l’attesa di un odore? Dalle sniffate: se mi aspetto un odore piacevole aumenterò la frequenza delle sniffate/respiri, se mi aspetto una puzza rallenterò i respiri come riflesso di sottrazione.  I risultati di questa ricerca, pubblicati su Nature Neuroscience, mostrano che questo è ciò che avveniva. C’è di più, i ricercatori si sono chiesti anche se ci fossero differenze nell’apprendimento durante le varie fasi del sonno e se questo apprendimento fosse conservato una volta svegli (ritenzione). Gli esperimenti hanno mostrato che l’apprendimento avveniva sia durante la fase REM che durante la fase Non-REM, tuttavia la ritenzione dell’informazione era maggiore se l’apprendimento era avvenuto durante la fase Non-REM, cioè di sonno profondo. La cosa sembra controintuitiva ma è consistente con numerose altre evidenze sperimentali che suggeriscono che le fasi di sonno profondo sono più importanti per il consolidamento della memoria. Inoltre studi condotti anche sui ratti mostrano che durante le fasi di sonno profondo (associato alle onde cerebrali lente) la cortecia olfattiva primaria è meno reattiva, mentre è più intensa l’attività delle connessioni tra le altre aree olfattive e la neocorteccia.
Volendoci lanciare in qualche speculazione possiamo notare che questo tipo di apprendimento legato a un tipo di memoria non-dichiarativa, quindi non consapevole, è anche consistente con il fatto che la percezione olfattiva abbia una componente non dichiarativa particolarmente spiccata, cioè ricordiamo un evento associato a un odore ma non riusciamo a spiegarlo a parole o darne una descrizione chiara.

Odori e sogni

E qui torniamo alla domanda iniziale: gli odori quindi entrano nei nostri sogni o no? Parlando in senso generale e anche in senso lato, tutto può diventare materia onirica e in qualche modo influenzare i nostri sogni e il loro contenuto per quanto ancora non siano ben chiari i meccanismi biologici che vi stanno dietro. Questione più sottile è invece capire se mentre dormiamo e non ne siamo coscienti gli odori possanno o meno avere un effetto sul nostro sonno e su ciò che sogniamo.

Alcuni studi hanno cercato di testare l’effetto di alcune essenze, come la lavanda, sul sonno e i risultati suggeriscono che se si dorme in presenza di questi odori la qualità e durata del sonno aumentino. Tuttavia questi studi hanno una statistica purtroppo molto inconsistente e le condizioni in cui sono stati condotti gli esperimenti non erano sempre ben controllate. Inoltre c’è da dire che siamo qui in un campo al confine tra fisiologia e psicologia per cui diventa ancora più difficile testare alcune ipotesi. Certamente l’uso di alcune essenze può darci un senso di benessere che ovviamente si ripercuote sul nostro grado di rilassamento e può quindi farci dormire meglio, ma è un effetto molto soggettivo e mediato anche dalla nostra coscienza e consapevolezza. Tanto per dire su di me la lavanda – che non sopporto – ha tutto fuorché un effetto rilassante…

I sogni dicevamo. C’è in particolare una ricerca che ho trovato interessante e che ha studiato questo problema: gli odori possono influenzare il contenuto dei nostri sogni?  C’era già stato qualche studio pionieristico negli anni ottanta ma il problema anche in questo caso, come dicevo, sono le condizioni sperimentali. Se vogliamo capire cosa avviene nel cervello che dorme (stato inconsapevole) durante la percezione di un odore e se questo in qualche modo influenza il sonno a prescindere dalla nostre possibili suggestioni e consapevolezza dobbiamo appunto essere sicuri di non avere coscienza dell’odore usato. Questo è per esempio e uno dei punti deboli delle precedenti ricerche.

In questo studio, condotto presso il centro per i disturbi del sonno del dipartimento di otorinolaringoiatria e chirurgia di Mannheim (Germania), i soggetti coinvolti nello studio sono stati monitorati con moderne apparecchiature e in un ambiente controllato per escludere il più possibile variabili e interferenze. I partecipanti hanno prima fatto tutti i test di rito per verificare la normosmia, ossia che il loro naso e olfatto funzionassero in modo normale, test per la soglia di percezione, di discriminazione e identificazione degli odori. Durante il sonno l’attività fisiologica è stata monitorata con polisomnogramma, elettroencefalogramma, elettro-oculogramma e elettromiogramma di entrambe le gambe, tradotto: hanno registrato l’attività e i movimenti di cervello, occhi e muscoli delle gambe. Per la somministrazione degli odori hanno usato un olfattometro che rilasciava gli odori in un flusso d’aria calibrato in modo da non interferire con il respiro e non alterare le condizioni meccaniche e termiche della mucosa nasale. Per specifici set di esperimenti legati all’impatto qualitativo degli odori (piacevole/sgradevole) sono stati usati:

–         H2S: sa di uova marce, generalmente non molto apprezzato, in 4 parti per milione

–         Phenil ethyl alcohol: sa di rosa, di solito ritenuto più piacevole, al 20%

–         Controllo inodore.

Fig2_Sleeping_with_odors-300x197Credit: Franziska Benedict

I partecipanti svegliati durante la fase REM dovevano descrivere ciò che stavano sognando e rispondere a una serie precisa di domande legate al sogno che stavano facendo e alle sue caratteristiche (non so se sarei stata in grado 😀 ). I risultati? Dall’analisi di tutti i dati è emerso che i soggetti non avevano incorporato gli odori, cioè non avevano sognato nulla che fosse direttamente e esplicitamente riconducibile a un odore. Però era statisticamente significativa rispetto al controllo l’attribuzione emozionale associata al sogno e correlata con l’odore. Insomma quando ai partecipanti durante il sonno veniva dato un stimolo puzzolente (leggi sgradevole/spiacevole) il contenuto emozionale dei loro sogni era significativamente più negativo rispetto al gruppo di controllo. Viceversa, quando veniva dato uno stimolo piacevole le emozioni piacevoli durante il sogno erano maggiori rispetto al gruppo di controllo in modo significativo. Sì siete saltati sulla sedia, anch’io.

Certo bisogna andarci cauti con le conclusioni ma questo dato suggerisce che gli odori durante il sonno non vengono incorporati dirattamente nei sogni, ma influenzano le emozioni provate in sogno. Secondo gli scienziati questo è dovuto principalmente al fatto che le connessioni anatomiche del senso dell’olfatto vanno direttamente all’amigdala che è appunto specializzata nell’elaborazione delle emozioni. Come da svegli abbiamo bisogno di un po’ più di training e concentrazione per trovare le parole giuste per un odore o un ricordo olfattivo rispetto a quanto faremmo con un altro tipo di stimolo, così anche dormendo l’olfatto influenza prima il nostro stato emozionale, la ragione arriva dopo.

Per approfondire:

–          Humans can learn new information during sleep,  Anat Arzi, Limor Shedlesky, Mor Ben-Shaul, Khitam Nasser, Arie Oksenberg, Ilana S Hairston & Noam Sobel; 2012, Nature Neuroscience, doi:10.1038/nn.3193

–          The Influence of Odorants on Respiratory Patterns in Sleep, Anat Arzi, Lee Sela, Amit Green, Gili Givaty, Yaron Dagan and Noam Sobel; 2010, Chem. Senses 35: 31–40, doi:10.1093/chemse/bjp079

–          Minimal Olfactory Perception During Sleep: Why Odor Alarms Will Not Work forHumans, Mary A. Carskadon, PhD1; Rachel S. Herz; 2004, SLEEP, Vol. 27, No. 3

–         Information processing during sleep: the effect of olfactory stimuli on dream content and dream emotions, Michael Schredl, Desislava Atanasova, Karl

Espansione in tre step

È stato l’olfatto a guidare lo sviluppo del cervello?

C’è un fatto sul quale numerosi paleontologi e neurobiologi si interrogano da un pezzo ed è come ha fatto il cervello dei mammiferi a evolversi? E soprattutto, perché le aree del cervello hanno dimensioni e proporzioni così diverse tra loro? Numerosi studi mostrano che in generale passando da una specie animale all’altra le dimensioni delle diverse aree cerebrali sono “in scala” con la massa totale del cervello, tutte eccetto una: il bulbo olfattivo. Nei vertebrati questa struttura, che rappresenta la prima postazione cerebrale per la decodifica degli odori, ha dimensioni che variano certo, ma non in proporzione alle dimensioni complessive del sistema nervoso centrale. Per capirci, secondo questo schema per un “cervello grande” ci si aspetterebbe di trovare anche un bulbo olfattivo “grande”, e invece no. Ad esempio, perché il bulbo olfattivo dei roditori è così grosso rispetto al nostro? Roba da non dormirci.

mouse_bulbImmagine dall’alto di un cervello di topo, la freccia indica il bulbo olfattivo

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Schema dell’evoluzione del cervello a partire dai cinodonti (in rosso è rappresentato il bulbo olfattivo).
Credit: Rowe et al. Science, 2011

Un sistema imprevedibile

Le dimensioni in verità non sono l’unico fattore per il quale il sistema olfattivo continua a lasciare i ricercatori spiazzati: nel mondo animale andando dai molluschi agli insetti, dai vermi ai vertebrati vi è una strabiliante convergenza per la quale vi sono alcune strutture o schemi di funzionamento comuni ed estremamente conservati nelle specie, ad esempio:

  • i recettori olfattivi sono proteine-G associate alla membrana cellulare
  • la via di trasduzione del segnale odoroso segue uno schema a due step
  • la prima stazione nervosa che riceve il segnale dai neuroni olfattivi ha un’organizzazione glomerulare

Altro fatto ancora da capire è perché nella corteccia olfattiva sembra non esserci nessun tipo di organizzazione topografica che ne rispecchi in qualche modo il funzionamento, come avviene con altri sistemi sensoriali, e gli scienziati stanno cercando di capire quale possa essere la chiave di lettura (e decodifica appunto). C’è infine un’altra questione, se da un lato la struttura generale del sistema olfattivo è piuttosto conservata, dall’altro lato il numero di geni che codificano per i recettori olfattivi tra diverse specie è estremamente variabile. Nei mammiferi i geni che codificano per i recettori olfattivi rappresentano la più grande famiglia multigenica del genoma, ma in ogni caso il numero di recettori olfattivi passando da una specie all’altra (invertebrati compresi) non segue schemi ovvi: il verme Caenorhabditis elegans ha circa 1500 diversi chemorecettori, il moscerino Drosophila melanogaster ne ha 130, l’uomo ha circa 350 recettori mentre il topo un po’ più di 1000. Che cosa significa? Non si sa.

Vari possibili scenari

I ricercatori hanno formulato a partire dai dati sperimentali in loro possesso diverse ipotesi che stanno cercando di verificare con nuovi esperimenti. La domanda principale come si diceva all’inizio è: perché il sistema olfattivo sembra essersi evoluto diversamente dagli altri e perché le dimensioni del bulbo olfattivo non seguono la regola generale?
Una possibilità potrebbe essere nella funzione primaria che noi attibuiamo al senso dell’olfatto, ossia riconoscere e distinguere gli odori. Lucia Jacobs in uno studio pubblicato sulla rivista scientifica PNAS ha formulato l’ipotesi che inizialmente la funzione primaria dell’olfatto non fosse tanto legata al bisogno di discriminare gli odori quanto a quella di usarli per orientarsi nello spazio, chiamata “funzione di navigazione”. Se questo fosse vero le diverse dimensioni del bulbo risponderebbero a queste esigenze e, semplificando, specie con comportamenti “esplorativi”, che quindi si muovono molto in cerca di cibo o per necessità di fuga dai predatori, avrebbero sviluppato ad esempio un bulbo con dimensioni maggiori rispetto a specie meno esplorative o che si sono evolute prediligendo altri sistemi sensoriali per questo scopo, vedi vista ed ecolocazione. In base a questa ipotesi l’esigenza di orientarsi usando “mappe sensoriali” basate sulla disposizione degli odori nello spazio avrebbe esercitato la necessaria pressione affinché il cervello si sviluppasse nella direzione che ha preso. Questo avrebbe favorito anche lo sviluppo dell’ippocampo e della memoria associativa come conseguenza dell’organizzazione delle informazioni sensoriali in moduli associativi. Ovvero, mi oriento nello spazio basandomi su una mappa mentale nella quale ho memorizzato determinate zone dello spazio in cui mi muovo associandole a odori caratteristici che quindi ricordo e riconosco. Si tratta ancora solo di un’ipotesi, ma sicuramente interessante.

Evoluzione a tre step

Un altro studio, su Science, suggerisce che significativi aumenti delle capacità olfattive hanno segnato e in qualche modo guidato le tappe principali dell’evoluzione del cervello dei mammiferi.
In questa ricerca è stato possibile applicare per la prima volta una scansione ai raggi X ad alta risoluzione di alcuni crani fossili, questo ha permesso di avere dati precisi sulla loro superficie interna, altrimenti non accessibile a meno di rompere il cranio stesso, e quindi risalire alla forma del cervello che ci stava dentro. Dalle ricostruzioni e dagli studi comparartivi del cranio fossile di due animali mammaliformi, Morganucodon e Hadrocodium, risalenti all’inizio del Giurassico, stiamo parlando cioè di quasi 200 milioni di anni fa,  è emerso che probabilmente l’evoluzione del cervello dei mammiferi è avvenuto in tre tappe principali. Partendo dai primi rettili che non avevano organi di senso particolarmente sviluppati e pure a coordinazione motoria non erano messi molto bene, si sono distaccati due rami principali che hanno portato rispettivamente ai mammiferi e agli uccelli. Nei mammiferi lo sviluppo di aree cerebrali più complesse pare sia stato guidato da un acuirsi del senso dell’olfatto e da un’espasione del cervelletto, deputato appunto alla coordinazione motoria. In una seconda fase le dimensioni complessive del cervello sarebbero aumentate di circa 50% e avrebbero riguardato di nuovo soprattutto bulbo olfattivo e cervelletto, ma anche gli emisferi cerebrali, come conseguenza di una più raffinata capacità di integrare gli stimoli sensoriali e motori.
Infine secondo gli autori  della ricerca si può individuare una terza fase dell’evoluzione del cervello dei mammiferi che ha visto un’ulteriore aumento delle capacità di elaborare gli stimoli odorosi. In questo periodo si osserva infatti un aumento del 10% dell’epitelio olfattivo e alcuni importanti modifiche alla struttura delle ossa craniche e del setto nasale. Inoltre il numero di geni per i recettori olfattivi si espande e aumenta il numero di recettori, le capacità olfattive insomma migliorano, e di molto.

F1.largeDimensioni relative di bulbo olfattivo, emisferi, medulla e cervelletto in rettili, uccelli e mammiferi
Credit: N. Kevitiyagala/Science

Sullo sviluppo degli uccelli a riguardo si hanno meno informazioni, ma i reperti fossili e i dati a disposizione suggeriscono che già i dinosauri più vicini a loro presentavano emisferi cerebrali e cervelletto più sviluppati, mentre il bulbo olfattivo era piuttosto ridotto. Cosa sia successo nel mezzo ancora non è chiaro.

Più si studia più aumentano le domande…