Una rosa è una rosa è una rosa è una rosa

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Rosa bulgara, Kalofer 2018. Credit: perfectsenseblog

Vi siete mai chiesti quante rose ci vogliono per fare un profumo? Beh dipende, solitamente nelle fragranze ci sono molte materie prime combinate e bilanciate insieme per creare un bouquet armonico, e pure quelli ispirati esplicitamente all’odore della rosa contengono anche altre materie, odori che servono, per esempio, ad armonizzare la fragranza e renderla più “completa”, e dipende poi dalla maestria e fantasia del profumiere e dall’idea che vuole esprimere (soprattutto nella profumeria più tradizionale e di nicchia, e nel caso di profumieri – i “nasi” – indipendenti). È più utile forse partire dalle materie prime, oli essenziali e assolute. Quante rose servono?

Di ritorno da un breve viaggio in Bulgaria, maggiore produttore insieme alla Turchia della rosa damascena, voglio raccontarvi della valle delle rose e di come dai fiori si arriva all’olio essenziale.

Le principali rose usate per la profumeria sono la rosa centifolia, la rosa alba, la rosa gallica, e la rosa damascena o rosa bulgara coltivata, come dicevamo, principalmete in Bulgaria e Turchia, ma anche in Iran, e in India che ne è un discreto produttore.

Le vicende evolutive e gli intrecci genetici che hanno portato alle attuali rose sono un capitolo interessante, e sulle loro origini ci sono ancora diverse questioni aperte. Tra l’altro, sono al momento in corso diversi studi per capire meglio i meccanismi genetici e molecolari che permettono a certe rose di  profumare più di altre. Contrariamente a quanto uno possa pensare, infatti, anche se spesso associamo le rose al loro profumo, la maggior parte di quelle in circolazione per scopi commerciali non ne hanno poi granché. La ragione è che nel corso del tempo attraverso i vari incroci le varietà sono state selezionate più per l’aspetto, il colore e la longevità che per l’odore. D’altra parte, siamo in tempi ecologicamente difficili e i cambiamenti climatici stanno mettendo a dura prova molte delle tradizionali coltivazioni, non solo di rose, per cui anche quelle dedicate ai profumi rischiano di diventare sempre meno e i produttori di oli essenziali e industria profumiera iniziano ad allertarsi e a cercare nuovi sistemi per garantirsi produzioni decenti.

Nel frattempo, uno studio pubblicato quest’anno su Nature genetics ha prodotto informazioni molto utili per venire a capo delle catene biosintetiche che determinano il colore dei petali, il profumo e i tempi di fioritura di una varietà di rosa cinese. Questi dati potrebbero aiutare a capire come favorire incroci di rose profumate e con un bel colore, e aiutare i coltivatori a ottenere rose più adatte alle attuali condizioni climatiche e alle nostre necessità. Inoltre, come dicevamo, l’interesse scientifico è anche nel venire a capo dei vari incroci, discendenze e parentele tra le circa 200 specie di rosa che ci sono (la metà delle quali, è poliploide, cioè con più corredi cromosomici). I ricercatori pensano che siano circa 8-20 le specie che anno inizialmente contribuito all’attuale panorama genetico delle varietà ibride, e una delle più importanti è proprio Rosa chinensis (diploide), portata in Europa dalla Cina intorno al Diciottesimo secolo e molto apprezzata e usata negli incroci per la frequenza delle fioriture e la longevità dei fiori. Avete presente la rosa tea? È una delle più conosciute e variegate, e sappiate che è una delle principali discendenti degli affari promiscui avvenuti nel tempo tra Rosa chinensis e i diversi tipi di rose europee e del Medio Oriente.

In Ordine: Rosa chinensis, Rosa alba, Rosa gallica, Rosa tea (ibrido).

 

Ma anche la nostra rosa damascena – e sì, anche lei si è incrociata con la chinensis – ha un albero genealogico e discendenze piuttosto intricate: originaria, si pensa, dell’Anatolia, si è poi diffusa in altre aree crescendo spontaneamente tra Caucaso, Siria, Persia, fino al Marocco e l’Andalusia. Gli incroci iniziali furono probabilmente tra Rosa gallica e Rosa moschata nel caso della varietà autunnale (autumn damask), e tra Rosa gallica e Rosa phaenicia per la varietà estiva (spiegazione semplificata, visto che gli intrecci, ibridi e varietà sono numerose, i botanici in ascolto sono i benvenuti per ulteriori commenti; Fonte: Hurst 1941; Nagar et al., 2007). Il nome “rosa di damasco”, viene proprio da uno di questi centri di origine da cui fu poi portata in diverse altre aree del Mediterraneo per trovare in Turchia e Bulgaria l’ambiente perfetto per crescere. Andiamoci.

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Coltivazione di rosa damascena, Kalofer 2018. Credit: perfectsenseblog.

 

Il centro della Bulgaria è una grande conca circondata, e riparata, dai Balcani e dagli antibalcani. La temperatura non è perciò mai troppo rigida e le sere estive non troppo calde. Inoltre, il sottosuolo è ricco d’acqua e ciò, insieme alle caratteristiche del terreno, rende questa zona, la valle tra Karlovo, Kazanlak e Plovdiv, il regno perfetto per la crescita della rosa damascena. Passandoci in macchina si osserva un paesaggio verdeggiante, un pianoro intervallato da tratti arborei che lasciano poi spazio a diverse coltivazioni tra le quali spiccano i campi di rosa: distese di arbusti verdi e bassi puntellati di rosa. A intervalli si trovano anche campi di lavanda, dai quali si ricava un ottimo olio essenziale (uno dei produttori che ho incontrato durante il mio viaggio, mi ha anzi fatto notare come la qualità della lavanda bulgara, e del suo olio essenziale, non abbia assolutamente nulla da invidiare a quella francese, anzi, a sua detta, è migliore. Certo sarà stato anche un po’ di parte, ma devo dire i campi avevano un aspetto bellissimo e l’olio essenziale che ho provato mi è sembrato davvero di ottima qualità – nonostante la mia personale insopportazione per l’odore della lavanda, ma su questo sorvoliamo).

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Distillatore tradizionale, usato ormai solo a scopo espositivo. Distilleria Enio Bonchev, Kazanlak. Credit: perfectsenseblog.

 

Nell’estrazione dell’olio essenziale di rosa uno dei fattori limitanti è che i petali ne contengono poco, e anche per questo motivo ne servono molti. Inoltre le fioriture, i tempi e il quantitativo non sono facilmente controllabili. La stagione di raccolta dura di solito tutto il mese di maggio. I coltivatori mi hanno detto che quest’anno hanno avuto un maggio pieno e la fioritura ha anticipato leggermente, così come le temperature sono state un pochino più alte degli anni scorsi…

Le rose vanno raccolte al mattino presto, di solito si inizia verso le 6 e si continua fino a mezzogiorno. Bisogna far in fretta e raccogliere i fiori a mano uno a uno. Un tempo si usavano grandi cesti di vimini o paglia, come si può vedere nelle foto tradizionali e nelle ricostruzioni storiche, ma oggigiorno si usano soprattutto sacchi di plastica, meno poetici, ma più pratici, leggeri e facili da trasportare. I fiori devono essere distillati il giorno stesso perché non deteriorino. I sacchi sono più o meno “tarati” nel senso che riempiti pesano circa 10-12 kg; al punto di raccolta ogni sacco viene pesato e messo “in attesa” per l’imminante distillazione. Un singolo raccoglitore fa in media 4 sacchi al giorno, e il prezzo di raccolta è di circa 1 Lev (ca. 0.51 eu) per kg, cioè i raccoglitori ricevono in media 25eu al giorno (circa il 10 percento dell’introito) più, spesso, vitto e allggio. Mi dicevano, tra l’altro, che quest’anno hanno fatto fatica a trovare i lavoratori locali e molti sono stati reclutati in Moldavia.

In una delle distillerie che ho visitato i numeri erano questi: quattro distillatori principali in acciaio inox ognuno dei quali ha una capienza di circa 180 kg di rose, a cui viene aggiunta acqua in rapporto 1:4 (c’erano poi altri sei distillatori in rame e più datati, grossi più o meno la metà degli altri). La distillazione avviene in acqua (nel caso della rosa la distillazione con vapore non funziona molto bene perché i petali si appiccicano tutti insieme durante il processo e pare che il risultato non sia dei migliori), dopo un primo passaggio si ottiene un liquido formato da olio essenziale che galleggia in superficie e viene subito raccolto, e acqua di rose che viene raccolta separatamente e fatta distillare una seconda volta per estrarre i componenti aromatici rimasti e che si erano liberati nella parte acquosa invece che in quella oleosa della prima distillazione. Alla fine i due oli essenziali, quello della prima e della seconda distillazione, vengono uniti e messi a maturare, mentre l’acqua rimasta dalla seconda distillazione viene usata per fare, appunto, l’acqua di rose.

Distilleria Enio Bonchev, Kazanlak. Credit: perfectsenseblog.

 

Una rosa pesa circa 5 grammi; da 1000 kg di rose si ottengono circa 200 ml di olio essenziale (o.e.), cioè per fare 1kg di o.e. di rosa servono circa 3000-3500kg di rose (nel caso della Rosa alba ne servono circa 5000kg), per un prezzo finale intorno ai 20-25 euro/ml.

Ma alla fine a cosa dobbiamo il profumo della rosa damascena? Come al solito, si tratta di almeno un centinaio di molecole che insieme determinano il caratteristico odore. Inoltre, un po’ come avviene con i vini per capirci, il risultato finale dipende da tanti elementi: abbiamo le caratteristiche genetiche a cui accennavamo prima, le condizioni ambientali – clima, suolo, acqua, etc, – e come queste ultime influenzano l’espressione di alcune caratteristiche genetiche; e poi ci sono le condizioni di temperatura e pressione alle quali avviene la distillazione, e il tipo stesso di distillazione e estrazione dell’olio essenziale: come dicevamo nel caso della rosa damascena si usa principalmente la distillazione in acqua (idrodistillazione), nel caso della rosa centifolia è invece più comune l’estrazione in solvente (di solito esano) da cui si ottengono le assolute.

Ad ogni modo, alcune delle molecole più caratterizzanti sono:

  • Citronellolo
  • Geraniolo, che tra l’altro veniva, e viene ancora usato per “tagliare” l’olio essenziale e contraffarlo. Cioè visto che l’olio essenziale di rosa puro è costoso, veniva allungato col geraniolo o simili.
  • Linalolo
  • 2-fenietanolo
  • Cis- rose-ossido

E poi questi tre, che se pur in concentrazioni bassissime (intorno allo 0.20%) conferiscono la parte più caratterizzante dell’odore:

  • α e β-Damascenone
  • β-ionone
  • α e β-Damascone

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La mia valigia oramai sa solo di rose (ma poteva andare peggio dai).

Bonus

La raccolta delle rose si chiude tradizionalmente con una grande festa folcloristica durante il primo fine settimana di giugno a Kazanlak. Il culmine si raggiunge la domenica con la parata finale: gruppi e rappresentanze da ogni parte del mondo si radunano qui e dopo assersi esibiti nei giorni precedenti in una rassegna di danze folcloristiche, sfilano per la città. Insieme a loro ci sono rappresentanze di scuole, club sportivi, e associazioni di ogni tipo:

Per l’Italia c’era Il palio della rosa.

 

Credit: perfectsenseblog.

 

C’erano anche una rappresentaza canina, e i bikers del Black roses motorcycle club 😀
Credit: perfectsenseblog.

L’uomo che sapeva di pesce – If you stink like a fish

 

Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita

(Prospero: atto IV, scena I)

Probabilmente molti di voi conosceranno, in una qualche forma, questa citazione dal dramma teatrale “La tempesta” di William Shakespeare. Eppure quest’opera dovrebbe essere ricordata anche per un’altra citazione suggestiva, almeno per chi è interessato a puzze e odori, e a malattie rare.

Siamo nell’atto II e Trinculo, grezzo ubriacone, parla senza giri di parole – figuriamoci delicatezza – dello schiavo Calibano:

E qui che cosa abbiamo? Un uomo o del pesce? Vivo o morto? Pesce: puzza come il pesce; un tanfo di pesce che è lì da anni; puzza come un vecchio nasello

(Calibano: atto II, scena II; mia traduzione libera dal testo inglese, vedi sotto)

E ora mettetevi nei panni del povero Calibano, ché già non è che se la passasse proprio bene: era uno schiavo caraibico, ed era affetto da alcune deformità. Inoltre, il suo corpo emetteva per davvero odore di pesce andato a male. Una condizione che, secoli dopo, verrà conosciuta e descritta dai medici come – indovinate un po’ –  “sindrome dell’odore di pesce” (Fish-odour syndrome) o trimetilaminuria. È una malattia genetica rara e le persone con questa sindrome hanno sudore, alito, pipì e liquidi corporei in generale, caratterizzazzati da un odore molto forte spesso descritto come quello di pesce guasto, uova rancide, urina. È una condizione che non procura danni o impedimenti fisici se non il fatto di puzzare terribilmente, e questo, invece, sì determina diversi problemi, che si ripercuotono sulla vita sociale e talvolta anche sulla salute psicologica dei pazienti.

Essendo, come dicevamo, una malattia piuttosto rara, ed avendo come quasi unico sintomo la puzza, è spesso ancora oggi difficile da diagnosticare (i test per diagnosticarla ci sono, ma fino a poco tempo fa non era molto nota e nessuno pensava a questa possibilità, e quindi a fare il test appropriato) per cui in diversi casi riportati si è arrivati alla diagnosi esatta solo dopo anni.

Il disturbo fu descritto per la prima volta in un articolo medico uscito su Lancet nel 1970 con il titolo: “Trimetilaminuria: la sindrome dell’odore di pesce” (Trimethylaminuria: the fish-odour syndrome). In questo caso si trattava di una bambina di sei anni, affetta anche da sindrome di Turner e con una storia clinica di numerose infezioni polmonari, quindi già sotto osservazione medica. La madre riportava inoltre “l’odore di pesce” della bambina. I medici cercarono di capire a cosa fosse dovuto questo odore e, dopo diverse analisi, scoprirono che la paziente non metabolizzava bene una sostanza chiamata trimetilammina (TMA).

Intermezzo sulla puzza di pesce  

Perché il pesce dopo qualche giorno inizia ad avere un odore molto intenso? La principale responsabile è proprio lei, la trimetilammina, anche se i pesci non hanno la sindrome di cui parlavamo. O meglio, in un certo senso sì, ma da morti.

I pesci di mare vivono in un ambiente molto più salino di quello presente nei loro tessuti, così molti di loro (soprattutto gli elasmobranchi) per “bilanciare” questa differenza e mantenere il giusto equilibrio salino hanno bisogno di stoccare delle molecole chiamate osmoliti. In questo modo aumentano la pressione osmotica dei tessuti e possono “tener botta” all’ambiente iperosmotico marino. Il composto principale “stoccato” si chiama trimetilammina-N-ossido (TMAO) e deriva dalla trimetilammina. Tuttavia, quando l’animale muore TMAO viene degradato e trasformato di nuovo da batteri e altri enzimi nella nostra puzzosa trimetilammina, che conferisce al pesce “di qualche giorno” il suo caratteristico odore.

La sindrome dell’odore di pesce

Nell’uomo la trimetilammina viene prodotta, per esempio, a partire da un’altra molecola, la colina, che assumiamo col cibo. A questo punto un enzima del fegato chiamato FMO3 (Flavina-monossigenasi-3) trasforma la trimetilammina in TMAO. Se per qualche ragione l’enzima FMO3 non funziona bene o nasciamo con una mutazione genetica che lo rende difettoso, la trimetilammina non viene trasformata e rimane a piede libero, dando alla persona l’aroma di pesce vecchio.

La diagnosi di solito si fa misurando la concentrazione di trimeltilammina e TMAO nelle urine, e nel caso i livelli di trimetillammina siano molto alti, si fa un test genetico. Come dicevamo la trimetilamminuria è una malattia genetica, autosomica recessiva, piuttosto rara e, anche per questo, a volte non facile da diagnosticare. Tuttavia, anche se è stata descritta in modo chiaro solo negli anni Settanta del secolo scorso, diversi documenti storici, e letterari, fanno a volte riferimento aneddottico a quadri clinici che fanno pensare a una sindrome come quella dell’odore di pesce. Uno di questi esempi è appunto il nostro Calibano, citato da Shakespeare.

Il trattamento del disturbo non prevede ancora, purtroppo, una vera cura, ma solo metodi per controllare la puzza. Il principale è fare attenzione all’alimentazione, cercando di ridurre i cibi ricchi di trimetilammina, come pesce di mare e crostacei, e altri alimenti ricchi di suoi precursori, come la colina. Con quest’ultima però la faccenda è complicata: la colina è importante per il corretto funzionamento delle cellule e del sistema nervoso, e particolarmente importante durante la gravidanza e lo sviluppo embrionale, perciò una sua carenza può causare gravi disturbi.

Bonus

Gli aneddoti più o meno folkloristici che descrivono casi simili alla sindrome dell’odore di pesce nel corso della storia sono diversi. Prima di Shakespeare anche altri vi avevano fatto riferimento. Nel testo indiano Mahabharata (1000 A.C.), per esempio, si narra di una giovane donna, di nome Satyavata, costretta al confino e all’isolamento per via del suo odore “di pesce” per l’appunto. Ma anche in diversi racconti della tradione Thai si fa riferimento, di tanto in tanto, a personaggi con lo stesso problema. Per tornarre in Europa invece, un altro testo interessante è il “Nature of aliments” (1735) di John Arbuthnot, scienziato che in questo trattato su cibo e nutrizione fa riferimento esplicito ai possibili effetti del mangiare troppo pesce e al fatto che gli abitanti dei posti di mare che si cibano quasi esclusivamente d pesce spesso hanno anch’essi quell’odore. Ovviamente non possiamo sapere se in questi casi si trattasse davvero di individui affetti dalla vera sindrome dell’odore di pesce, o altro, ma ile descrizioni danno spazio alle speculazioni.

If you stink like a fish

We are such stuff as dreams are made on, and our little lifeis rounded with a sleep.

(Prospero, IV.I.148–158)

You all probably know this quote from The tempest by William Shakespeare, what you might not know is that, within the same play, odor-hunters and morbid- nerdy lovers can found some little treasures as well.

Take this moment, for example, act II, scene II, the rude jester Trinculo refers to Caliban, a deformed slave from Caribbean islands, as following:

What have we here? a man or a fish? Dead or alive? A fish: he smells like a fish; a very ancient and fish-like smell; a kind of not of the newest Poor John

(The Tempest II. II. 26–29)

Surely not respectful, nor sympathetic, the description holds, indeed, some true: Caliban did actually smell like a fish.

We could speculate he was affected by a genetic disorder, lately in the Twenty century described – guess how – as “fish-odour syndrome” or trimethylaminuria. The disease is not mortal, yet affects severely the quality of life of the person who carries the disorder: sweat, breath, pee, and all its body fluids have a smell often described like rotting fish, eggs, urine. That implies possible difficulties in social interactions, law self-esteem, and in some cases psychological issues.

Short digression on the smell of fish

Did you ask yourself why, after all, fish start to stink that way after some days? Do they also somehow suffer of such a syndrome? Well, not exactly, as far as they stay alive.

See fish live in a salty environment, and the salt-concentration is much higher than what is in their tissues. Therefore, they developed a trick in order to “counterbalance” the so-called high osmotic pressure, with high concentrations of certain compounds like amine. The main of these is the trimethylamine-N-Oxide (TMAO), an odorless compound derived from the metabolism of trimethylamine. When they die, bacteria and enzymes start to degrade TMAO back into trimethylamine, which has the characteristic fish odour.

The fish-odour syndrome 

In humans trimethylamine is usually assumed trough food like see fish and crustaceans, or as a byproduct of other substances like choline. In the liver the trimethylamine is then converted into TMAO by an enzyme called FMO3 (Flavin- monooxygenase-3). When FMO3 does not work properly, or we got a genetic mutation for this enzyme, trimethylamine remains in our body, which in turn starts to stink as rotten fish.

The first clinical case described was in 1970 on the medical journal Lancet: “trimethylaminuria: the fish-odour syndrome”. A six-year-old girl, with pulmonary infections and other diseases was under medical observation. The mother reported also the daughter had a “fish-odour”. After several analyses, it turned out the girl had a metabolic disorder and her body was releasing with the urine a huge amount of trimethylamine.

Due to the fact that is relatively rare, and most often not well known, the fish-odor syndrome has been in several patients often overlooked. Interestingly, historical anecdotes and descriptions of individuals with such conditions are presents in several cultures among millennia till our Shakespearean Caliban.

Unfortunately for the patients, the disorder has not a real cure and the unpleasant smell can be only kept under control, in certain degree, with a proper dietary. Limitation in see-food intake and food rich in choline could help.

Bonus

There are, historically, several anecdotes of people with a strong fish-like smell: in the Indian epic Mahabharata (1000BC) a women called Satyavata was forced to a solitary life because she stank like rotting fish. Similar cases are also present in Thai stories, and in Europe we find similar stories in Shakespeare’s play, and in John Arbuthnot treatise on nutrition and foods. On “Nature of aliments” (1735) he explains that certain people, like the inhabitants of see villages, due to the huge daily intake of fish they also start to stink so.

References

Mitchell SC, Smith RL. Trimethylaminuria: the fish malodor syndrome, Drug Metab Dispos. 2001 Apr;29(4 Pt 2):517-21.

Arbuthnot J.  An Essay Concerning the Nature of Aliments, 1753 , (J. Tonson, London), 3rd ed. pp 828.

Humbert JA, Hammond KB, Hathaway WE. Trimethylaminuria: the fish-odour syndrome, 1970, Lancet. Oct 10;2(7676):770-1.

Messenger J1, Clark S, Massick S, Bechtel M. A review of trimethylaminuria: fish odor syndrome,J Clin Aesthet Dermatol. 2013 Nov;6(11):45-8.

 

Se al cavolo piace Čechov – When cabbage loves Chekhov

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Cabbage Installation at Mediamatic, Amsterdam. Credit: perfectsenseblog.

 

Ho amato molto il mio appartamento quando vivevo a Trieste; appena trasferita ci vollero circa due mesi per far andar via l’odore di cavolo che lo possedeva. Sembrava essere una parte strutturale delle mura, o forse lo era davvero perché quell’odore, per la verità, non andò mai via del tutto.

E quindi, seppure allora dichiarai guerra aperta al cavolo in ogni sua forma ed espressione, ora quell’odore in qualche modo mi è caro.

La lotta all’odore di cavolo è una faccenda su cui non si scherza, e ci sono diverse ricerche per capire come cammuffarlo, contenerlo, cancellarlo, eradicarlo. Alcune di queste riguardano in particolare quello ornamentale, avete presente quei fiori un po’ “strani” – per chi non li ha mai visti – che girano in autunno, violacei, dall’aspetto di lattuga riccia con gambo lungo? Quelli. Chiunque li abbia avuti in casa almeno una volta conosce bene la fragranza pestilenziale di cui si riempie la casa se poco poco ci si dimentica di cambiargli l’acqua…

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La questione dunque è questa: sti fiori sono tanto belli e decorativi quanto malefico è il loro odore dopo qualche giorno, e i giapponesi, che di piante e fiori ornamentali se ne intendono, e guarda caso ne fanno largo uso, hanno cercato il modo di ottenere fiori meno puzzolenti. Che poi, il problema riguarda anche le nostre parti, visto che ora vanno di moda, e l’Olanda ne è il maggior produttore europeo.

Forti di queste esigenze, nel 2014 i ricercatori del NARO Institute of Floricultural Science di Tsukuba e del Plant Breeding & Experiment Station (Takii & Company) di Konan, in Giappone, hanno fatto una ricerca sugli odori del cavolo ornamentale Brassica oleracea (var. acephala f. tricolor). Dalle loro analisi, fatte con gas cromatografia e spettrometria di massa, hanno potuto “catturare” e analizzare gli odori emessi dai fiori recisi e dall’acqua dei loro vasi.

Intermezzo

 

In Giappone la sensibilità per odori e fragranze è abbastanza diversa da quella Occidentale: profumi e odori sono molto apprezzati e il loro uso ha una lunga tradizione (gli incensi per esempio), tuttavia vengono usati in modo diverso, si prediligono fragranze più tenui e non “aggressive” o squillanti, e, soprattutto, si cerca di non turbare e disturbare gli altri in pubblico con i propri odori, di qualunque natura essi siano. Per i vegetali succede un po’ la stessa cosa, e di fatti anche fiori, come per esempio i narcisi, dall’odore gradevole, ma piuttosto intenso, sono apprezzati nei giardini all’aperto, ma non vengono usati per decorare ristoranti e luoghi pubblici perché l’odore è considerato troppo forte.

E ora immaginatevi quanto possa essere delicata da quelle parti la gestione del cavolo decorativo.

 

L’odore del cavolo

 

Dalle analisi sono emerse alcune molecole non proprio nuove: il dimetildisolfuro, emesso dal fiore e dall’acqua dei vasi, e il dimetiltrisolfuro, isolato solo dall’acqua. Il che non ha sorpreso particolarmente gli scienziati visto che queste molecole hanno un curriculum di tutto rispetto: sono, per esempio, tra le responsabili della puzza di diverse crucifere (cavolo, broccoli, broccoletti di Bruxelles, etc) e della cipolla.

Insieme a questi, dai fiori hanno isolato anche:

– α-pinene: odore di pino

– β-pinene: odore di trementina

– 2-esanale: odore fruttato

– metiltiocianato: odore dolciastro

Mentre dall’acqua dei fiori:

– allilisotiocianato: odore pungente tipo senape

– 3-metil tiopropil isotiocianato: odore irritante un po’ pungente tipo rapa o rapanello

– metil metiltiometildisolfuro: odore solforoso simile all’aglio e al cavolo cotti.

Queste le principali, bisogna poi tenere presente che dalle quantità in cui queste molecole sono presenti e come si “mescolano” insieme emerge l’odore complessivo.

 

Come ridurre le emissioni?

 

Capito quali sono i principali componenti dell’aroma di cavolo rimaneva da trovare un modo per ridurne le emissioni, insomma uno stratagemma per farli puzzare meno. A parte il saggio consiglio di cambiare spesso l’acqua dei vasi, gli scienziati hanno anche studiato alcune delle vie metaboliche che producono le sostanze odorose del cavolo: l’idea è che bloccando una di queste vie, si bloccherebbe o almeno ridurrebbe la produzione della o delle molecole puzzolenti, e si avrebbe un fiore che non fa puzzette e, quindi, più presentabile in società.

Dagli esperimenti di questi ricercatori pare che l’uso di inibitori della sintesi del  dimetildisolfuro (Cyprodinil e aminooxyacetic acid) non servano granché; al contrario, germicidi isotiazolinonici, usati in genere per far mantere più a lungo i fiori recisi, funzionano riducendo le emissioni di dimetildisolfuro del 30-40%.

 

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Anastasia Loginova listening to cabbage. Credit: Mediamatic.

Bonus

E poi c’è chi i cavoli li ama, al punto di mettersi a recitare per loro brani di Čechov e Tolstòj, come l’artista Anastasia Loginova. Succede al Mediamatic di Amsterdam, un’istituzione culturale che si occupa di arte, design e scienza e delle possibili intersezioni tra queste discipline in relazione all’ambiente e alla società. Ci sono stata recentemente e il programma invernale ha una sezione dedicata proprio al cavolo e come usarlo: Pare che la scorsa stagione il raccolto di cavoli sia stato perticolarmente abbondante, cosa fare dell’eccedenza? Il team di Mediamatic a risposto a proprio modo recuperandola e organizzando delle attività a tema per una riflessione sul cibo e come gestire a livello locale le eccedenze. Partendo da questo hanno organizzando incontri e workshop a tema (per esempio come fare il Kimchi – la versione giapponese dei crauti per capirci), menu a base di cavolo nel loro bistrot, e installazioni artistiche. Scopri così virtù e meraviglie di questo ortaggio: avete presente il suono dei pugni nei film di kung-fu? Ecco il suono migliore lo fanno con i cavoli.

 

When cabbage loves Chekhov

When I was in Trieste my flat was one of the things I loved most; at the beginning it was embedded in an awful cabbage odor. It toked me two months to get rid of that, yet after a while it was there. I embraced a cruel bat against that odor which now felt like a dear one.

Going against cabbage odor is a serious stuff, people try to cancel, undermine, reduce, get rid of it. Take the ornamental cabbage for example, it is not an easy guy, as you shall see if you try to keep it in the same water for more than 2-3 days… so, some researchers are working on that.

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Scientists from NARO Institute of Floricultural Science, Tsukuba, and Plant Breeding & Experiment Station (Takii & Company), Konan, Japan, made some studies on the ornamental cabbage Brassica oleracea (var. acephala f. tricolor) in order to find out the main odorants and how to fight them.

Researchers analyzed with gas chromatography-mass spectrometry techniques the air emitted by the cabbage-flower and coming from the vase water. It turns out most of pestilent odor comes from two well-known molecules: Dimethyl disulfide and Dimethyl trisulfide. These molecules are also responsible for the aroma of other cabbage-relatives (broccoli, Brussels sprout, etc.) and onions.

Other odorants isolated, though at the end they all blend together in the characteristic aroma:

  • α-Pinene odor of pine;
  • β-Pinene: turpentine-like
  • Methyl thiocyanate: Unpleasant and sweet odor
  • 3-Methyl thiopropyl isothiocyanate: Raddish-like
  • Allyl isothiocyanate: Mustard-like pungent odor

Researchers questioned also how to get rid or reduce the production of such molecules, and they find out that isothiazolinonic germicide, the same used to preserve cut-flower, is the most effective, along with the good habit of changing often the vase water…

Bonus

In defense of cabbage we must say it stinks mostly when is cooked (or overcooked) and the stinky molecules get released, but there are plenty ways to make it appetible and tasty,  for example just roasted, and in sauerkraut or kimchi (the Japanese way).

And we have people who love talking to cabbage and reading Russian literature to it as artist Anastasia Loginova does during her perfomances at Mediamatic in Amsterdam (on their website you find the full program). The cultural institution is hosting for winter season a series of workshop, installation and talk about cabbage. I was there recently and it is amazing to see and learn how many things you can do out of it. Did you know the best Kung-fu sound is made with cabbage?

 

Reference: Kishimoto et al., Odor Components and the Control of Odor Development in Ornamental Cabbage. J. Japan. Soc. Hort. Sci. 83 (3): 252–258. 2014

Sul perché ci profumiamo

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Marketing d’altri tempi…

 

Questo è il periodo dell’anno in cui, tra un regalo e l’altro, a molti capiterà di fare o ricevere un profumo. Messe da parte le due categorie principali di chi usa profumarsi e di chi i profumi non li sopporta proprio, ci sono naturalmente una varietà di comportamenti più o meno estremi, da chi si profuma solo in certe occasioni a chi ci si fa il bagno e ne cambia tre al giorno. Una domanda di fondo rimane: perché?

Perché ci mettiamo il profumo? Da un punto di vista puramente biologico la questione è interessante per diversi motivi. Gli odori, nel mondo animale, sono un importante veicolo comunicativo: si capisce se il partner è disponibile all’accoppiamento, si stanano le prede, si avverte l’arrivo di un predatore, si delimita il territorio. Non è poi raro che gli animali si mettano certi odori “di proposito”, ad esempio, rotolandosi nelle feci di un altra specie per non far sentire il proprio odore a potenziali prede o predatori, e amenità di questo tipo. Ma si è visto anche che diversi animali in cattività, scimmie comprese, se messi a loro disposizione, fanno uso di profumi umani (è stato osservato in diversi zoo, ma non si è ancora capito del tutto se il comportamento sia influenzato dallo stato di cattività). Viene quindi da chiedersi se anche per gli umani il fatto di applicarsi degli odori possa in qualche modo nascondere un retaggio evoluzionistico e quale sia il suo significato.

Il profumo dell’uomo

Dice l’uomo ha da puzzà – e in effetti la biologia ci suggerisce che il riconoscimento del partner più adatto lo si sceglie anche in base al suo odore – ma se poi il potenziale partner si mette un profumo, e quell’odore lo copre, come si fa?

L’odore del proprio corpo è quello che meglio di tutti guiderebbe in modo efficace la scelta del partner con cui metter su famiglia. Pensando cioè in termini pragmatici, dal punto di vista biologico – con qualche semplificazione per capirci – la questione più importante è riprodursi, assicurarsi una progenie sana che a sua volta riuscirà a riprodursi e quindi continuerà a tramandare il proprio patrimonio genetico. Questo è quanto. Diversi dati sperimentali suggeriscono che anche nell’uomo l’odore aiuti a individuare il partner più adatto, ossia quello con un patrimonio genetico diverso dal proprio, perché questo assicura una maggiore variabilità e un migliore “rimescolamento” genico, che mette più al riparo da tare genetiche e malattie geneticamente trasmissibili (avete presente quando ci si sposava tra cugini e metà dei parenti aveva la stessa malattia?). L’odore cosa centra: il nostro sistema immunitario e un complesso di proteine chiamato ‘complesso maggiore di istocompatibilità’ (MHC) permettono –detto in soldoni – al nostro organismo di riconoscere elementi estranei, come i patogeni, e attivarsi contro di esso per proteggerci. Da alcuni esperimenti sembrerebbe che dall’odore del corpo è possibile “sentire” se il MHC di chi abbiamo vicino è simile al nostro oppure no. Se è simile le possibilità di avere poca variabilità genica sono maggiori, quindi non sarebbe una buona scelta come parner riproduttivo; se invece ha un MHC molto diverso dal nostro è una buona scelta per la prole. I dati sperimentali indicano anche che troviamo più attraente l’odore della persona con un MHC diverso dal nostro.

Succede, però, come suggerisce in modo un po’ provocatorio Rachel Herz,  che siamo abituati a profumarci e a coprire l’odore del nostro corpo, e questo potrebbe giocare a nostro sfavore in termini di riproduzione. Dall’altro lato c’è da dire che di solito l’uso del profumo viene nella nostra società usato soprattutto a scopo edonistico e sensuale. Di solito una persona con un buon profumo è considerata più attraente e questo conferisce sicuramnete un vantaggio riproduttivo che però, potenzialmente, potrebbe non andare a buon fine.

Per quanto nell’uomo gli elementi socio-culturali e psicologici giochino un ruolo preponderante in faccende così personali, la questione solleva interrogativi interessanti e spunti di riflessione, e il dilemma sembra diventare una scatola cinese: puzzo o mi riproduco? Ma se puzzo poi non trovo un partner, quindi mi profumo, ma se mi profumo e poi non mi riproduco?

E voi che profumo usate?

 

Bonus

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Warhol nose. Credit: Chloe Effron

A proposito di profumarsi, uno che davvero ci andava giù pesante era Andy Warhol: una collezione sconfinata di profumi e deodoarnti (ancora conservata al Andy Warhol Museum di Pittsburg) ed esperimenti vari che amava fare indossando qualunque odore/profumo gli capitasse a tiro. Uno dei suoi progetti, forse meno noti, è infatti la “permanent smell collection” (collezione permanente di odori).

The Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again):

Another way to take up more space is with perfume. […] I switch perfumes all the time. If I’ve been wearing one perfume for three months, I force myself to give it up, even if I still feel like wearing it, so whenever I smell it again it will always remind me of those three months. I never go back to wearing it again; it becomes part of my permanent smell collection.

L’olfatto spiegato facile – Olfaction for beginners

Sui recettori olfattivi e come gli odori arrivano al cervello

La via che collega un odore ai nostri centri di elaborazione, cioè la corteccia cerebrale, è piuttosto diretta, dal respiro alle emozioni. Possiamo pensare al nostro naso come a un portale un po’ magico, come lo specchio di Alice ci porta in un’altra dimensione, quella degli odori. Il naso è una finestra sul mondo, poiché ci mette direttamente a contatto con l’ambiente esterno. Un contatto piuttosto intimo, perché gli odori si legano direttamente ai nostri neuroni olfattivi. Vediamo come.

Le tappe anatomiche di un segnale odoroso schematizzando barbaramente sono: naso – cervello. Più precisamente, abbiamo tre stazioni principali:

  • Prima stazione: epitelio olfattivo, nel naso
  • Seconda stazione: bulbo olfattivo, nel cervello
  • Terza stazione: corteccia olfattiva (cognizione), ippocampo (memoria), amigdala (emozioni), nel cervello
Sobel, 2010

1. Epitelio olfattivo. 2. Bulbo olfattivo. 3. Corteccia olfattiva. 4. talamo. 5. Corteccia orbitofrontale. Credits: Sela and Sobel, 2010.

L’olfatto, come sappiamo, è un senso chimico, cioè lo stimolo odoroso è fatto di molecole chimiche che, attraverso l’aria che respiriamo, raggiungono i recettori olfattivi. Su cosa siano questi recettori c’è ogni tanto un po’ di confusione perché si parla spesso, anche tra scienziati di questo campo, di “recettori olfattivi” per riferirsi sia ai recettori veri e propri sia ai neuroni olfattivi, ma non sono esattamente la stessa cosa. Però, se uno non lo sa, la cosa può in effetti confondere.

I recettori olfattivi propriamente detti sono proteine specializzate presenti sulle cellule dell’olfatto, che sono chiamate neuroni olfattivi (sì sono neuroni!). Tuttavia, siccome di fatto il neurone olfattivo trasmette l’informazione odorosa al cervello ed è il primo a ricevere lo stimolo, molti lo chiamano impropriamente “recettore” in senso lato.

I neuroni olfattivi formano, insieme ad altri tipi di cellule di supporto e ghiandole, buona parte dell’epitelio olfattivo, posizionato sul fondo delle fosse nasali. Potete immaginarlo collocato più o meno alla radice del naso, all’altezza degli occhi.

nose

I neuroni olfattivi hanno un corpo principale, più o meno a forma di pera, dalla cui testa si allunga un bottoncino da cui sporgono alcune ciglia. Queste sono esposte all’esterno e sono coperte da uno strato di muco in cui le molecole odorose devono disperdersi per raggiungere i recettori. Dall’altro lato della pera si allunga invece un prolungamento chiamato assone che, come un cavo, si dipana fino al cervello e finisce nel bulbo olfattivo. L’insieme di questi cavi, provenienti dai diversi neuroni olfattivi formano il nervo olfattivo, che è il I nervo cranico e porta l’informazione dal naso al cervello.

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Sezione di epitelio olfattivo.

OLFACTORY CILIA

Ciglia di neuroni olfattivi viste dall’alto.

Recettori come lego

Quando un odore si insinua nelle nostre narici, le molecole che lo formano si legano quindi a specifici recettori presenti sulle ciglia dei neuroni olfattivi (come avvenga esattamente questa interazione a livello molecolare non è ancora del tutto chiaro).

Gli esseri umani hanno circa 10 milioni di neuroni olfattivi (si trovano in letteratura stime che vanno dai 6 ai 12 milioni per la verità) e ognuno di loro possiede un solo tipo di recettore. La parte di genoma dedicata ai recettori olfattivi è enorme: nell’uomo ci sono circa 400 geni che codificano per questi recettori (nel topo sono circa 1200). Cioè quei 10 milioni di neuroni sono divisi in circa 400 tipi diversi a seconda del recettore che esprimono (senza parlare delle ulteriori varianti alleliche). Alcuni di questi recettori sono molto specifici e riconoscono solo poche molecole, altri invece sono a spettro un po’ più ampio.

Al momento il meccanismo più supportato da prove scientifiche per l’interazione tra molecola di odore e recettore è quella “chiave-serratura” e funziona cioè un po’ a incastro come i mattoncini lego. Questa interazione e riconoscimento avviene secondo un codice combinatorio: ogni neurone olfattivo esprime un solo tipo di recettore che può però riconoscere una o più molecole con diversa affinità. Cioè alcune chiavi sono molto specifiche, mentre altre sono un po’ più simili a dei passepartout. Ogni odore è composto quasi sempre da molte molecole diverse, e ognuna di esse si legherà a diversi recettori; dalla combinazione finale, un po’ come un codice a barre, si avrà l’identità dell’odore; chi fa la decodifica del codice a barre è il cervello.

Il bulbo olfattivo è come un centralino

Quando il recettore si lega alla molecola odorosa il neurone manda attraverso il proprio assone-cavo un segnale al bulbo olfattivo, prima stazione di decodifica, che potremmo immaginare un po’ come l’insieme tra un centralino e un ripetitore: riceve e smista i segnali provenienti dell’epitelio olfattivo e, dopo una prima rielaborazione, li rimanda ai piani alti del cervello, la corteccia olfattiva.

Il bulbo è organizzato in unità funzionali chiamate glomeruli, dove il primo passaggio di informazione dal naso al cervello avviene attraverso le sinapsi tra le terminazioni dei neuroni olfattivi e quelle di altri neuroni (cellule mitrali – Mitral and Tufted cells più precisamente) che a loro volta trasmettono il segnale alla corteccia. Ogni glomerulo riceve i segnali provenienti dai neuroni olfattivi con lo stesso tipo di recettore. Per esempio, tutti i neuroni che esprimono il recettore M71 mandano le loro terminazioni nervose alle stesse due coppie di glomeruli (ci sono mediamente due glomeruli per bulbo, destro e sinistro, per recettore).

Su come gli odori sono mappati nel bulbo olfattivo

Si è cercato per molto tempo di capire se dalla disposizione spaziale dei glomeruli nel bulbo olfattivo fosse possibile ottenere una “mappa” degli odori: se ogni glomerulo corrisponde a un recettore specifico che si lega a specifiche molecole, significa che nel bulbo si potrebbe (ipotesi) trovare una “mappa chimica” (chemotopica) degli odori in modo analogo a ciò che avviene per gli altri sensi. Ci aspetteremmo cioè di trovare aree specializzate al riconoscimento di ciascuna classe chimica o quasi, per esempio una zona per le aldeidi, una per i chetoni e via dicendo. Le cose però stanno in modo un po’ diverso.

Più che una mappa precisa quella che si ottiene dall’analisi delle risposte dei glomeruli a diverse sostanze odorose è un’organizzazione in macroaree che riflette la classe di recettori olfattivi dai quali ricevono i segnali. I recettori olfattivi sono divisi in due classi: I e II, localizzate in diverse aree dell’epitelio solo parzialmente sovrapposte. I neuroni con questi due tipi di recettori mandano le proprie terminazioni nervose a parti del bulbo chiamate rispettivamente dominio I, più ristretto, e dominio II, più esteso. C’è poi una terza area, quella dei recettori TAAR (Trace Amine-Associated Receptors), identificati nel 2006. Secondo il modello attualmente più accettato dai ricercatori quindi, nel bulbo olfattivo ci sono tre macroregioni, o domini, che ricevono le informazioni olfattive da tre diverse classi di recettori: I, II e TAAR, tuttavia in questo caso non è possibile parlare di una vera e propria mappa sensoriale.

Olfaction EMBO reports VOL 8 NO 7 2007

Credits: EMBO reports VOL 8 NO 7 2007.

Dal bulbo, dicevamo, l’informazione su cosa si è legato ai recettori olfattivi viene mandata alle regioni superiori del cervello, dove si trasformano nella percezione di un odore. La cosa più affascinante di tutto ciò è, infatti, che un odore, come ho già detto altre volte, diventa tale nel nostro cervello. Una molecola di per sé è solo una malecola ma diventa odore dopo che l’abbiamo annusata, anzi ognuno di noi ne avrà una percezione un pochino diversa, ma questa è un’altra storia…

Olfaction for beginners

From the receptors to the odor

Our nose is a special window, like the Alice’s looking glass, it is an intriguing passage, it connects directly our brain to the external world, it is our gate to the world of smell.

What happens to an airborne molecule entering our nose? When does it become an odor? The gross anatomy of these passages would be: nose – brain. Simple and fast. More precisely we have three main stages:

  1. Olfactory epithelium, in the nose
  2. Olfactory bulb, in the brain
  3. Olfactory cortex (cognition), hippocampus (memory), amygdala (emotions); in the brain

Olfaction is a chemical sense: an odor is made out of several chemicals entering our nose with the air we breathe. At the end of our nasal cavity we find the olfactory epithelium, where olfactory receptors are sitting. There is actually some confusion sometimes about the term “olfactory receptor” due to the fact that people often call with this term both, the actual olfactory receptors and the olfactory sensory neurons where the olfactory receptors are sitting, but as we can see they are not the same thing. The olfactory receptors are specialized proteins present on the olfactory cells, which are by the way real neurons! These pear-shaped neuronal cells have a knob terminal from which depart several cilia. The cilia are exposed to the external environment and imbedded in a layer of mucus. From the other site of the olfactory cell departs another extension, a wire that goes to the olfactory bulb, and forms with many others the first cranial nerve called olfactory nerve.

Humans have around 10 million olfactory neurons (estimations in literature count 6-12 million) expressing almost 400 different types of receptors. Each neuron has only one type of those receptors meaning the 10 million of olfactory neurons are divided in roughly 400 types (without taking into account different alleles).

But how is it possible that with 400 receptors we can smell more than 10.000 different odors? It turns out we are with a bunch of Lego-bricks in our hands: we can combine them in different ways. The interaction between a molecule and a receptor works like a lock-and-key model but with differences among the receptors. Some are very specific and can recognize one or few molecules/key only, others are broadly tuned and can bind different chemicals. Since an odor is usually made out of several different chemicals, each molecule will activate different receptors, and as in a barcode the final combination of them will give us the final odor identity. The decoding of the barcode happens in the brain.

As we have seen the odor information goes from the olfactory neurons in the nose to the olfactory bulb where the information coming from the same type of receptors converge on the same unit called glomeruli. The olfactory bulb works as a sort of relay and an analyzer: it takes the information from the nose, it makes a first rough decoding and it send it up to the higher brain centers. Here the magic happens and molecules become odor, which is indeed very personal yet specific among people. How this happens is another story…

Bonus

Designing with smell: Practices, Techniques and Challenges – The book.

 

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È Fuori. Il libro Designing with smell – Practices, Techniques and Challenges edito da Victoria Henshaw, Kate McLean, Dominic Medway, Chris Perkins, Gary Warnaby per Routledge è uscito, finalmente libero di andare con le proprie gambe, o sarebbe il caso di dire, di librarsi in volo e diffondersi come un odore ricco ed evocativo.

È stato un lavoro lungo e collettivo al quale ho avuto l’onore di partecipare e che ha messo insieme esperti di diverse discipline dell’arte, della ricerca scientifica e umanistica, tutti accomunati da un interesse specifico per l’olfatto e dal lovoro con odori e profumi, con i sensi e l’arte. Vi elenco qui di seguito le parti in cui è diviso il libro giusto per stuzzicarvi (di sotto nella sezione in inglese trovate l’abstract):

Part I Olfactory Art

Part II Representing Smell

Part III Smellscape Design and Monitoring

Part IV Retail, Scent and Service Design

Part V Smell Learning Environments

Part VI Historic and Theatrical Smellscapes

Part VII Smell Capture, Distillation and Diffusion

Il mio contributo come vi dicevo è sull’uso di odori in ambito teatrale e performativo. Insomma è andata così, lavorando sulla fisiologia dell’olfatto da un lato, continuando con i training e la pratica di teatrodanza dall’altro, a un certo punto semplicemente è successo. Non potevo evitarlo: le cose si sono incrociate. Leggevo e cercavo (e questa pratica continua) di approfondire gli studi di neuroscenze applicati alle arti, la neuroestetica, le scienze cognitive applicate alle arti performative – danza e teatro principalmente – e a un certo punto mi sono chiesta cosa ne fosse in tutto ciò del senso dell’olfatto. Certo è un senso difficile da controllare, sfuggente, ma questo è sufficiente a far sì venga ignorato? Nessuno si era preso la briga di mettere in scena un odore? Non dico una “puzza”, ma almeno un “profumo”? La mia ignoranza sulla questione andava colmata e nel frattempo avevo bisogno di provare da me. A usare gli odori in scena e durante il traning dico. A capire come fare e come non cascare subito nelle trappole di un senso così viscerale e profondo. Come è andata?

Nel mio contributo in questo libro c’è in qualche modo l’inizio di questa storia, con una panoramica sull’olfatto e l’uso di odori in scena e la presentazione di alcuni “casi”, performance e pezzi teatrali, e racconto anche dello studio iniziale di una mia performance di teatro danza con gli odori. Del resto vi darò presto altre notizie 😉

 

Designing with smell – Practices, Techniques and ChallengesThe book is out!

I am very happy to announce the long waited book on smell and design is finally out! It has been a long way, with many contributors coming from different disciplines and a common interest on smell, art and design, and I am honored to be on of them.

The book, which was initiated by the late Victoria Henshaw, was continued in her memory by Kate McLean, Dominic Medway, Chris Perkins, and Gary Warnaby as editors, and it is published by Routledge:

Designing with Smell aims to inspire readers to actively consider smell in their work through the inclusion of case studies from around the world, highlighting the current use of smell in different cutting-edge design and artistic practices. This book provides practical guidance regarding different equipment, techniques, stages and challenges which might be encountered as part of this process.

Throughout the text there is an emphasis on spatial design in numerous forms and interpretations – in the street, the studio, the theatre or exhibition space, as well as the representation of spatial relationships with smell. Contributions, originate across different geographical areas, academic disciplines and professions. This is crucial reading for students, academics and practitioners working in olfactory design.

The book includes my contribution on smell and theater, with some case-studies including the work in progress of my performance Duft- metamorphosis, a dance-theater piece with odors.

Imagine being in a theater watching a piece or a choreography. Focus on the gesture of the actors, on the expressions of their faces, you can feel them. Actually, you can smell them. Would be this disturbing? Fascinating? Could be the meaning/interpretation of the performance influenced? In this chapter I analyze the use of the odors, i.e. the odor perception, in the performative space: how the smell can be included in the space of the spectator and the actor and, how it modifies the communication between them and their experience. The olfaction has the unique feature to be directly connected with the deep and old part of the brain, the so-called “reptilian brain”. The regions that process odor-information, emotions and memory are in part overlapped. What does this mean for the performative arts? In this work I am going to explore these questions analyzing as case-study different uses of the smell in space.

 

‘Wurzi’ il fiore-cadavere sta tornando – The corpse flower is back to Frankfurt

E non è solo…

Del fiore (che sa di) cadavere e di quanto puzza vi avevo già parlato. L’anno scorso ne avevo beccato la fioritura al Palmengarden di Francoforte, dove la pianta sembra trovarsi proprio bene… Infatti in questi giorni ci sono altre due fioriture in arrivo!

Non è una cosa tanto facile, c’è una vera e propria gara tra i giardini botanici in giro per il mondo, e le fioriture di solito sono monitorate e seguite, tanto che in alcuni posti, quando ce n’è una si creano file di centinaia di persone per vederlo, e annusarlo.

E niente sto fiore puzzolente (ma precisiamo è un’infiorescenza) mi ha conquistata, e questa volta, in collaborazione con Hilke Steinecke del Palmengarten di Francoforte, terrò un visita guidata per annusarlo e conoscerlo meglio. Se per caso in questi giorni siete da queste parti scrivetemi! (qui sotto i dettagli).

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‘Wurzi’ and the little brother are about to bloom in Palmengarden Frankfurt. Credit: perfectsenseblog.

 

An evening with Amorphophallus titanum

A journey into the lovely stinky-world of the corpse flower

 in collaboration with Dr. Hilke Steinecke – Palmengarten Frankfurt

Let’s make it clear from the beginning; if they call it ‘corpse flower’ there is a reason.

And now, imagine being the first person who found it.

We are in the 1878 and Italian botanist Odoardo Beccari is exploring the tropical forest in Sumatra: a walk through all kind of green, a rich atmosphere, lush and highly humid, full of odors coming from the vegetation. Odoardo at a certain point is been catching from a strange scent, an unusual smell like something rotten. He thinks there must be a monkey-carcass somewhere nearby or something similar…

Odoardo starts to follow the putrid scent, but It turns out what he finds is not the remaining of a dead animal, but something way more interesting, and astonishing: a three-meters tall flower standing in front of him.

It is called Titan Arum, Amorphophallus titanum in Latin, which comes from ancient Greek and means άμορφος – amorphos, “without form, misshapen” and φαλλός – phallos, “phallus”, and “titan”, “giant”. The plant, from the Araceae family, consists of a smelly spadix of flowers wrapped by a spathe (a leaf-like bract), and it is the largest unbranched inflorescence in the world, though commonly named giant “flower”. And it stinks. Heavily and deadly. Why the plant produces such odors?

Meet Amorphophallus titanum at the Palmengarten in Frankfurt during a special tour in the evening, when the giant flower releases its putrid lovely scent at its best. We will talk about the olfaction, the sense of smell, and how we sense odors. We will have a special focus on stinky plants and on the particularities of Amorphophallus titanum.

Free your nose, It’s gonna stink…

Practical information

When: We don’t know! We are making the countdown for the plant to bloom, it can happen anytime within the next days. If you are interested in it write an email to hilke.steinecke@stadt-frankfurt.de  or to anna.derrico@gmx.de and we will let you know as soon as we are ready for the tour.

The tour will take place at h.19:30 and it takes almost 1.15 hours

Where: Palmengarten Frankfurt – Siesmayerstr. 61, 60323 Frankfurt am Main

Entrance: : It is Free! (donations are welcome)

Further information: hilke.steinecke@stadt-frankfurt.de   Tel: 069 212 38149

Occhio che perdi il naso! – If the nose get lost (or you loose it)

Storie di nasi perduti e rinoplastica dei bei tempi andati

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On 29 December 1566 Tycho Brahe lost part of his nose in a sword duel against a fellow Danish nobleman. Via Wikipedia.

 

Le mutilazioni, da che mondo è mondo, sono sempre state tra i principali mezzi di coercizione, tortura, punizione e vendetta. E indovinate un po’ qual era, in passato, una delle parti del corpo più gettonate? Il naso.

Per gli antichi greci, tra l’altro, il naso era simbolo di sapienza e virilità e più uno ce l’aveva grosso più era considerato virile, se ne fa accenno pure nell’Eneide – se vi siete mai chiesti perché, invece, nelle statue greche classiche gli uomini sono sempre rappresentati con genitali di piccole dimensioni, la risposta è che, al contrario del naso, il pene di piccole dimensioni era considerato segno di logica e razionalità (classicisti tra il pubblico ne abbiamo? Correggetemi se sbaglio). Ad ogni modo, cosa capitava agli adulteri? Amputazione del naso, appunto.

Ché, per la verità, e anche in epoche successive, di solito erano più le donne a essere punite, e sfregiate: l’uomo, per vendicarsi di un adulterio o di un rifiuto, poteva ricorrere a questo tipo di amputazione, deturpando a vita la malcapitata. Era, anzi, una pratica regolamentata anche dal diritto romano (Marziale, Epigrammi II, 83; III, 85). Altrimenti, poteva capitare che fossero le donne stesse, in casi estremi, ad autoamputarsi per rendersi meno attraenti e risparmiarsi una violenza. È l’idea che ebbe, secondo i racconti, la badessa di Coldingham Priory, in Scozia, nel 870 d.c., per salvare la virtù propria e delle consorelle dall’assalto dei vichinghi. Questi pare non apprezzarono la cosa e le bruciarono insieme al monastero. E pare un destino simile capitò pure, nel nono secolo dopo Cristo, alle monache del convento di St. Cyr, a Marsiglia, le quali sperarono così di scampare all’attacco dei saraceni: la loro verginità pare si salvò, loro invece non sopravissero.

Ci sono numerose testimonianze, in epoche e civiltà passate, di punizioni giudiziarie basate sulla mutilazione di diverse parti del corpo. È riporato nel codice di Hammurabi, nei testi egizi, ma si ritrova anche dagli antichi testi Hindu e in quelli delle civilità precolombiane. In epoche successive, in Europa dal Medioevo in poi, questa pratica fu spesso bandita in modo ufficiale, anche se poi, di fatto, durante combattimenti, battaglie e prigionie capitava che qualche naso, e non solo quello, saltasse.

0392-100X.29.044.fig1Il naso by Antonio Guadagnoli from Arezzo.

An illustration from Il naso by AntonioGuadagnoli from Arezzo.
Poesie giocose di Antonio Guadagnoli, Lugano, 1839.

Nel libro Il tesoro de la vita umana, il medico alchimista Leonardo Fioravanti (1518-1588), seguace di Paracelso, descrive una serie di casi di uomini con nasi amputati in seguito a duelli e guerre, fatto a quei tempi piuttosto comune. Comune al punto che alcuni medici si “specializzarono” e misero a punto tecniche chirurgiche di “ricostruzione” nasale, delle primordiali rinoplastiche diciamo, che furono poi descritte in dettaglio e formalizzate dal medico bolognese Gaspare Tagliacozzi nel libro  Decurtorum chirurgia per insitionem (1597). D’altra parte, perse il naso durante un duello, proprio in quei tempi, anche l’astronomo Tycho Brahe (1546-1601), che divenne così famoso, tra i salotti del tempo, come “l’uomo dal naso d’oro”. Infatti, un’alternativa alla chirurgia (ché farsi operare di quei tempi non era proprio una passeggiata, tra mancanza di anestesia e pratiche ancora rudimentali…) erano le protesi: nasi finti, di solito in metallo, legno o pelle, tenuti in posizione da corde o con altri stratagemmi.

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16th Century nasal prosthesis. Reference: Parè A. Dix livres de la chirurgie. Paris: Le Royer; 1564.

Ritornando alla rinoplastica invece, il primo intervento riportato è quello descritto nel De Medicina (VII, 9) da Aulo Cornelio Celso nel primo secolo dopo Cristo, e che consiste nel semplice ricongiungimento dei lembi di pelle. Metodo invece più raffinato, e infatti tramandato per secoli, è quello “indiano”, praticato appunto dai chirurghi indiani e che consisteva nel “ricostruire” la parte mancante, usando lembi di pelle prelevati dalle guance o dalla fronte del paziente. Questo metodo si diffuse poi anche in Europa dalla fine del Settecento in seguito ai contatti degli Inglesi con l’India.

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Illustration from an article appeared in Gentleman’s
Magazine, in October 1794, reporting on the results of the Indian method
used in reconstruction of the nasal pyramid employing a folded over forehead
 fl ap (Willemot, 1981). Reference: G.Sperati, Amputation of the nose throughout history, 2009.

 

Il naso, ce l’abbiamo lì piantato in mezzo alla faccia, ineludibile e forte ci caratterizza, segna le nostre espressioni ed è, naturalmente, parte importante della nostra identità e immagine. Non a caso la sua mutilazione era usata come rivalsa: quale altra parte del viso colpire altrimenti per distorcere i connotati e ferire, anche psicologicamente,  qualcuno?

Ché poi, in fondo, siamo tutti un po’ dei Vitangelo Moscarda

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The Nose an opera by Dmitri Shostakovich based on a story by Nikolai Gogol,
directed by William Kentridge, Metropolitan Opera House, New York, Spring 2010. Via NewMusicon.

If the nose get lost (or you loose it…)

About nose mutilation and old rhinoplasty

 

Mutilation has always been, through the centuries, a good option for punishments, revenge, coercion, and abuse. Guess what was one of the most favorite parts of the body to be taken off? The nose.

Well, to be fair, we should notice that among ancient Greeks a big nose was considered sign of strength and virility; therefore as punishment in case of adultery, it was cut off. Actually, most of the time victims were women: infidelity and adultery was sometime solved with a mutilation that would give to the person a permanent unpleasant aspect. It was regulated lately also by Roman law (Marziale, Epigrammi II, 83; III, 85) and it has been often used as means of revenge. But, we have also cases of self-mutilation: in order to avoid a sexual attack, women would try to make their-self repulsive with a rhinotomy or other slash. This was the case for the Abbess Eusebia, in the St. Cyr Monastery in Marseilles, in the 9th Century, in the desperate hope to save her virginity and the virtue of the others nuns from the Saracens. Somehow it worked out, but only for the virtue surviving the attack…

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18th Century nasal prosthesis anchored to spectacle frames (from
Pirsig, Willemot 2001). Cit. G.Sperati, 2009.

In ancient times mutilation as punishment was regulated by law among several cultures as reported all over the world: from the Hammurabi code to the Egyptians, in the Hindu’s ancient documents as well as in the Pre-Colombian reports. Lately, in Europe, mutilation of the nose was common following a battle or during a duel: even astronomer Tycho Brahe lost his nose during a duel becoming famous among the social gathering as “the man with the golden nose”. In fact, the use of prosthesis in order to cover the damage was quite common. Artificial noses were usually made out of metal, leather or wood, kept in place by little cords.

Nose reconstruction was also relatively common: the first rhinoplasty is reported by Aulo Cornelio Celso in the De Medicina (VII, 9), in the First Century, consisting in a simple sliding of the flaps. More sophisticated was the “Indian method”, practiced over the centuries by Indian surgeons and consisting in reconstructing the missing part with skin from the cheeks or from the forehead of the patients. In Europe, Italian physician Gaspare Tagliacozzi codified the technique for nose reconstruction in his book Decurtorum chirurgia per insitionem (1597).

We often disregard our nose, though it represents in a way our identity: it is placed in the middle of our face, delineates our mimic and the way we express ourselves. In fact, this is one of the reasons why it was so often a great target for revenge: nose mutilation severely impairs the person, physically and psychologically, changing his aspect and, therefore affecting its own sense of identity – by the way, we all a kind of Gogol’s character.

Bonus

 

References

Sperati G. I chirurghi empirici italiani e l’affermazione della rinoplastica nel XV secolo. Acta Otorhinolaryngol. Ital.1993; 13:267-9.

Sperati G. Amputation of the nose throughout history. Acta Otorhinolaryngol. Ital. 2009; 29:44-50

Fioravanti L. Il tesoro de la vita humana. Venice: Valgrisi; 1673.

 

L’aromaterapia e l’effetto Forrest Gump – On aromatherapy and the Forrest Gump-effect

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Via Pinterest.

 

C’è un libro molto interessante, dell’antropologa Annick Le Guérer, che si intitola “I poteri dell’odore”. È uno dei libri “base” di chi si avvicina al mondo dell’olfatto e vuole capire meglio le componenti sociali e antropologiche legate agli odori, cosa di cui l’autrice si occupa da decenni ormai.

Ma quali sono i “poteri” dell’odore? Questa espressione fa riferimento a un sacco di cose; astraendo, e pensando un momento anche alla nostra esperienza personale, possiamo scorgere a cosa si allude: gli odori influiscono sulla nostra vita e sulle nostre sensazioni in molti modi, decisamente non trascurabili. Dagli odori ambientali in cui ci imbattiamo per strada (smog, pattumiera, erba appena tagliata, scarichi, cibo,…) a quelli individuali, dall’ascella dello sconosciuto accanto a noi sull’autobus alla pelle del nostro partner o dei nostri figli. E in tutte queste situazioni, quegli odori saranno capaci di influenzare in qualche modo il nostro stato e senso di “benessere” (nel senso comune del termine), irritarci, eccitarci, darci piacere, fastidio, e così via.

I meccanismi con cui ciò avviene sono principalmente psicologici, culturali e personali. C’è un legame molto stretto tra olfatto, emozioni e memoria, e per questo motivo se associamo un certo evento o una persona a un odore particolare, sarà poi molto facile risentendo, anche a distanza di tempo, quello stesso odore, richiamare subito alla mente quello specifico episodio o persona. Soprattutto, riemergerà la sensazione o emozione a cui li avevamo associati. Perciò, se si trattava di qualcosa di piacevole, verosimilmente quell’odore avrà per noi una connotazione positiva, viceversa, se si era trattato di qualcosa di brutto, la sensazione, anche rispetto all’odore, sarà spiacevole. Questo meccanismo è inoltre influenzato dal gusto personale, dall’esperienza e da elementi culturali, perché non tutti siamo abituati agli stessi odori. E quindi non abbiamo tutti le stesse reazioni, anzi. Da un certo punto di vista potremmo considerare l’olfatto come uno dei sensi più imprevedibili, per dirla alla Forrest Gump: non sai mai quello che ti capita.

Il fatto poi che certi odori possano colpirci a livello emotivo, insieme alla loro fugacità, li rende strumenti perfetti per inspirare la fantasia, creare suggestioni e associazioni di vario tipo. Non solo, una moltitudine di odori e aromi viene da piante, fiori e erbe chiamate, appunto, aromatiche e usate tradizionalmente in cucina, ma a volte anche a scopo cosmetico, e medicamentoso in tempi in cui non la medicina moderna non era ancora nata. L’uso da parte dell’uomo di oli e unguenti profumati, incensi e preparati odorosi risale alle prime civiltà, seppure con modalità e valenze diverse a seconda del periodo storico e delle aree geografiche. Spesso erano usati per scopi rituali e legati alla sfera del sacro, oppure per fini assolutamente profani, nei belletti e unguenti per il corpo per esempio, o, in modo più pragmatico, per coprire puzze e odori corporei in epoche in cui l’igiene personale non era tra gli usi e i costumi. Dal punto di vista sociale e antropologico, anche per via dello stretto legame associativo tra odori, emozioni e sensazioni “viscerali” di cui sopra, odori e profumi hanno assunto nel corso del tempo diverse connotazioni, prestandosi spesso, anche ad associazioni metaforiche suggestive che intrecciavano poesia, miti, leggende, arti mediche e cosmetiche.

I rimedi dalle piante

Tra l’altro, la prima farmacopea era basata su preparati vegetali, dai quali, come abbiamo imparato a fare successivamente, con il crescere delle nostre conoscenze scientifiche, è possibile a volte isolare principi attivi utili a scopo farmacologico. Avete presente l’aspirina? In passato, per curare diversi malesseri come febbre e malditesta, si usava una polvere ricavata dalla corteccia del salice bianco (Salix alba). Tra Settecento e Ottocento alcuni studiosi ne isolarono il principio attivo, contenuto nella corteccia, e la chiamarono, vedi un po’, salicina. Poi, alcuni chimici capirono come sintetizzarla in laboratorio e fu così possibile avere una resa maggiore: se ne poteva produrre molta di più di quel poco ricavabile direttamente dalla pianta, avere quindi dosi più efficaci e a prezzo decisamente inferiore. E sapendo come era fatta la salicina fu possibile, qualche tempo dopo, mettere a punto una nuova molecola, molto simile alla salicina, ma capace di dare meno effetti collaterali, l’acido acetil salicilico: era nata l’aspirina.

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Di New York Times, February 19, 1917, p. 6 (via ProQuest Historical Newspapers: “Display Ad 26 — No Title”), Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3661828

 

Molte piante usate nella farmacopea di un tempo, anche se non sempre, sono piante aromatiche, e nel corso del tempo si è scoperto anche come estrarre, per distillazione o altre vie, la componente odorosa ottenendone oli essenziali. Questi di fatto sono prodotti dalle piante principalmente a scopo difensivo, o per comunicare; in effetti, diversi oli essenziali hanno un’azione antibatterica, e se usati puri sulla pelle possono anche essere irritanti. Dall’associazione tra l’effetto curativo di una pianta dovuto a un principio attivo in essa contenuto e l’idea che, magari, anche il suo odore potesse avere un qualche potere terapeutico il passo è stato molto breve. È davvero così? Facciamo un salto in laboratorio.

Aromaterapia e aromacologia

Siamo nel 1937 e René-Maurice Gattefossé, ingegnere chimico e dirigente di un’azienda di oli essenziali e profumi, pubblica il libro “Aromathérapie – les huiles essentielles hormones végétales” (éd. Librairie des sciences Girardot, 1937), coniando così il temine ‘aromatererapia’ e sostenendo il potere terapeutico degli oli essenziali, in particolare della lavanda, che la sua stessa azienda produceva. Ancora oggi l’aromaterapia è una pratica diffusa e si basa sostanzialmente sull’idea che certi oli essenziali possano svolgere un effetto terapeutico per inalazione, cioè basterebbe annusarli. Nel 1982 il Sense of smell institute, conia invece il termine ‘aromacologia’ per indicare lo studio scientifico della stimolazione olfattiva su umore, comportamento e fisiologia cercandone prove sperimentali. Mentre la prima è una disciplina basata su concetti non provati scientificamente, l’aromacologia è una branca di studi a cavallo tra la psicologia e la psicofisiologia che cerca di comprendere attraverso esperimenti controllati l’effetto psicologico degli odori e i suoi meccanismi.

Al termine “aromaterapia” per la verità sono spesso associate pratiche diverse accomunate dall’uso di erbe e piante aromatiche, e oli essenziali. Tuttavia non si tratta della stessa cosa e i loro effetti, o presunti effetti, non sono gli stessi per tutte le modalità con cui vengono usati. Per capirci, l’uso di “erbe” ed estratti per alcuni disturbi, se preparati correttamente e assunti in dosi/concentrazioni in cui effettivamente c’è il principio attivo, sono un’altra cosa. Questi di solito vengono ingeriti e quindi il corpo può metabolizzarli e mandarne il circolo il principo attivo. O nei casi di alcune pomate, essere usate in modo topico e fatte assorbire localmente dalla pelle. Attenzione, c’è da dire che a volte anche se il principo attivo a certe dosi, molto alte, avrebbe un effetto, in pratica lo si trova in concentrazioni così basse che per avere degli effetti reali bisognerebbe assumerne quantità improponibili, e che darebbero ben altri problemi. Ricordate quando vi ho parlato della teobromina nel cioccolato? È vero che può essere tossica, lo è per diversi animali, però la dose letale di teobromina per l’uomo è stimata intorno ai 1000 mg/Kg di perso corporeo. In una stecca di 100 g di cioccolato al latte ci sono circa 200 mg di teobromina. Diciamo che un uomo del peso di 70 Kg se volesse suicidarsi mangiando cioccolato dovrebbe prepararsi una merenda con 35 kg di cioccolato al latte, magari qualcosina meno se ama il fondente. Come si suol dire, è la dose a fare il veleno, e questo vale sia in senso curativo sia in senso nocivo.

L’assunzione di erbe, decotti e simili sono quindi un’altra cosa, anche se spesso sono associate ai trattamenti di aromaterapia, che prevedono invece l’uso di oli essenziali in combinazione principalmente a massaggi e sistemi di deodorizzazione.

Sedute di massaggio aromaterapico, quindi con oli essenziali, vengono spesso suggerite per disturbi di ansia, stress e affaticamento mentale/emotivo. Per capire se effettivamente gli oli essenziali in questo caso hanno un effetto specifico sono stati fatti diversi esperimenti e si è visto, in trial randomizzati, che il massaggio “da solo”, cioè senza oli essenziali, è già capace di dare benefici contro l’ansia e lo stress. Cioè, il massaggio è già sufficiente e non è l’aggiunta degli oli essenziali a renderlo efficace contro l’ansia e lo stress. L’aroma può essere un arricchimento sensoriale piacevole e in questo senso contribuire a rendere più coinvolgente l’esperienza del cliente, così come, viceversa, se gli oli usati hanno un odore che al cliente proprio non piace difficilmente l’effetto potrà essere distensivo, insomma l’effetto “Forrest Gump” è dietro l’angolo…

Tornando invece agli studi di aromacologia, c’è che effettivamente alcuni odori sono capaci di influire sull’umore e, in certi limiti, su alcuni comportamenti, ma in che modo? Bisogna cioè capirne il meccanismo. Le possibilità di fatto sono due: potrebbe esserci un’azione farmacologica oppure psicologica.

Alcuni esperimenti

Detta un po’ semplice, perché un farmaco abbia un qualche effetto deve essere assorbito dall’organismo, metabolizzato e entrare nel circolo sanguigno (non sempre in questo preciso ordine eh) in modo che possa raggiungere le cellule “bersaglio”. E perché possa essere di qualche utilità vogliamo anche che sia il più specifico possibile, idealmente che si diriga solo dove vogliamo che “faccia effetto” perché se colpisce tutto senza distinzione o danneggia tutto o non fa nulla ovviamente il suo uso può non avere molto senso. Purtroppo il farmaco “perfetto” non esiste, è sempre un po’ un compromesso ttenuto misurando i benefici e i effetti contrari. E naturalmente vogliamo, quanto più possibile, che l’effetto sia sempre lo stesso e sempre alla stessa dose, perché se funziona solo ogni tanto e a dosi che non si riescono a stabilire bene – ” è un po’ di più, signò che faccio lascio?” – viene pure il dubbio funzioni per davvero.

Ci sono degli odori per cui i quali si è potuta registrare sperimentalmente un’attività farmacologica?

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By Kemal ATLI – Lavender Field, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=36702179

L’olio essenziale di lavanda in questo senso è uno dei più studiati. Alcune ricerche per esempio mostrano che l’olio essenziale di lavanda e in particolare il linalolo, suo principale componenete, modulano l’attività sinaptica inibendo il legame del glutammato, principale neuritrasmettitore eccitatorio. Questo effetto potrebbe quindi avere un effetto rilassante. È stato inoltre osservato un effetto modulatorio anche dell’ adenosin-monifosfato-ciclico (cAMP) a livello postsinaptico, associato anche questo a sedazione. Attenzione però, come hanno fatto i ricercatori a ottenere questi risultati? Cioè come l’hanno testata questa cosa? Le misure sono state fatte principalmente su parti di ileo intestinale di guinea pig e sull’utero di ratti. Inoltre l’olio essenziale era infuso direttamente sul tessuto analizzato o, nel caso di esperimenti in vivo, somministrato direttamente in vena o nello stomaco degli animali.

Come dicevamo prima, perché una sostanza abbia un effetto farmacologico c’è bisogno che venga assorbita dall’organismo e vada in circolo. Perciò se la sostanza agisse per via area, cioè l’olio essenziale agisse per inalazione, ci dovrebbero essere delle molecole volatili che vengono assorbite dalle vie aeree, oppure tramite stimolazione diretta dei recettori olfattivi. Se questo avvenisse davvero, dovrebbe essere possibile trovarne poi tracce in circolo. Effettivamente questo è stato osservato in alcuni esperimenti sui roditori. Tuttavia, in altri esperimenti si è anche osservato che, in ratti a cui erano state ridotte chirurgicamente le capacità olfattive, dopo avere inalato cedrolo, componente principale del olio essenziale del legno di cedro, era comunque possibile ritrovarne tracce nel circolo sanguigno, escludendo quindi una possibile azione per via olfattiva.

Sugli studi riguardanti l’effetto farmacologico di alcuni oli essenziali ci sono insomma diverse questioni fondamentali di cui tenere conto. Intanto gli studi di questo tipo sono stati fatti in modelli animali, in vivo o in vitro, mentre non ci sono studi nell’uomo in cui si osserva, dopo inalazione di queste sostanze, la loro presenza nel circolo sanguigno. Inoltre negli animali questi composti vengono testati a concentrazioni ben maggiori di quelle usate per l’uomo e la somministrazione è di solito per via più “diretta” e non per semplice inalazione. Tra l’altro anche elementi come il rapporto peso/taglia rispetto alle concentrazioni usate nel roditore e nell’uomo sono molto diverse. Infine, perché una sostanza entri in cicolo e abbia un effetto farmacologico di solito servono almeno una ventina di minuti o comunque una certa finestra temporale, mentre nel caso dei trattamenti con oli essenziali nell’uomo, l’effetto riportato è solitamente quasi istantaneo, il che fa già propendere per un effetto psicologico più che propriamente farmacologico.

C’è stato un esperimento nel 2004 presso l’università di Vienna in cui hanno testato l’effetto del (-)linalolo, componente della lavanda dicevamo, per assorbimento transdermico, con massaggio. In questo caso l’inalazione era impedita da una mascherina e il massaggio applicato sulla pelle dell’addome per 20 minuti. In seguito i ricercatori hanno registrato un abbassamento della pressione sanguigna che potrebbe essere stato associato a un effetto rilassante. In questo caso i ricercatori non escludono che attraverso l’assorbimento dermico la sostanza possa essere entrata in circolo ed aver esercitato qualche effetto sul sistema nervoso autonomo, in un tempo compatibile con una possibile azione farmacologica. Rimane tuttavia difficle formulare un quadro chiaro  poiché questi esperimenti non sono stati replicati. Inoltre altri esperimenti, come dicevamo, hanno dimostarto che anche il massaggio da solo ha questi effetti, e quindi perché non dovrebbe averli il massaggio con l’olio essenziale? È possibile un effetto “sinergico”, ma per diramare la questione servirebbero studi più accurati.

Ci sono invece diverse prove di una possibile azione psicologica degli oli essenziali. Cioè le aspettative del paziente, il contesto e le precedenti associazioni, anche emotive, del paziente con determinati odori possono indurre effetti che si ripercuotono anche a livello fisiologico. Così come umore e stato d’animo possono influire sul comportamento, ed entro certi limiti sulla nostra “ricettività” a certi tipi di trattamento. In questo caso siamo cioè di fronte a situazioni in cui il contesto, le nostre aspettative e la nostra “predisposizione” mentale hanno un ruolo molto importante. Di solito quando andiamo a farci fare un massaggio, o ci sottoponiamo a sedute aromaterapiche, lo facciamo già con l’idea di volerci rilassare, e star bene, e di solito, lavanda o no, se quello che ci ha fatto il massaggio non è bravo, non ci mette a nostro agio o l’ambiente ha degli elementi per noi disturbanti, sarà molto difficile che l’effetto finale sia rilassante.

Nel 2004 alcuni ricercatori hanno fatto un esperimento molto interessante: 90 studentesse di un campus universitario sono state sottoposte a un test con lavanda, neroli e un composto inodore (placebo). Ogni sostanza era di volta in volta presentata come “rilassante” o “stimolante”, e venivano intanto monitorati alcuni parametri fisologigici come frequenza del battito cardiaco, conduttanza cutanea, e psicologici con auto-valutazione dell’umore. I risultati mostrarono che se la lavanda veniva presentata come “rilassante”, gli effetti registrati erano consistenti e quindi la persona provava rilassamento, se invece quella stessa sostanza era presentata come “stimolante” si osservava un effetto appunto stimolante. Questo per tutte le sostanze testate, compresa quella inodore. Cioè non era la sostanza per sé a dare un effetto, ma le aspettative dei soggetti.

Gli studi sui possibili effetti terapeutici degli oli essenziali sono numerosi, ma spesso vizizati da numerosi problemi di ordine tecnico e metodologico. Nell’immenso zoo di studi scientifici si trovano risultati di ogni genere, spesso in contraddizione tra loro, e spesso svolti in condizioni diverse e non sempre riproducibili o non consistenti dal punto di vista statistico. D’altra parte sappiamo che trovare un singolo studio a sostegno di un’ipotesi in questo frangente non è poi così difficile. Ciò che fa la differenza e rende lo studio solido è il rigore scientifico, e quindi anche statistico, con cui è stato svolto, e la sua riproducibilità, cioè il fatto che sia replicabile e che anche altri, possibilmente molti altri, abbiano replicato l’esperimento e siano giunti alle stesse conclusioni. Se ci troviamo invece con una serie di studi che dicono cose diverse, se non completamente opposte, sono difficili da riprodurre e danno risultati confusi, come facciamo a essere sicuri di un certo fenomeno? Voi vi fidereste?

Quindi, massaggino con gli olietti profumati sì o no? Direi che dipende, da cosa vi piace. Io personalmente, essendo un’amante anche dei profumi, li uso molto, consapevole che il loro “effetto” dipende principalmente dal fatto che usi odori che mi piacciono e “mi fanno stare bene” -oppure no, e che siano di buona qualità, cioè non troppo “allungati” o tagliati con altri oli. E in questo senso apprezzo chi mi sa “guidare” nella scelta di un olio descrivendomi le sue caratteristiche “olfattive” in modo che io possa scegliere ciò che in quel momento mi piace e “sento” più appropriato (questo, in modo assolutamente emotivo più che scientifico 😉 ), rispetto a chi, molti, mi elencano possibili effetti “terapeutici” piuttosto aleatori… Gli odori hanno un potere? Emozionano, stordiscono, irretiscono, nauseano, calmano, innervosiscono…

 

On aromatherapy and the Forrest Gump-effect

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In a famous book, anthropologist Annick Le Guérer talks about the “powers of smell”. It is a must-read for people interested in sociological and anthropological aspects of scents and odors. But, what the powers of smell are about? What does it mean?

Well, on a very basic way, if you have ever been on a public area close to the armpit of a stranger, or if you can recall the body smell of your partner, or of your child, probably you know what is all this about.

Smell can make us excited, irritated, nervous, or peaceful; it connects directly with our feelings and memories, therefore it is very powerful at modulating our sensations and sense of wellbeing. The emotional link we make between an odor and a memory is very strong and loaded with emotional features. If a memory had positive connotation, also the associated odor will; vice versa, if the emotional attribution of a particular event was negative, the odor attached to that will most likely result unpleasant as well. This depends from previous experiences, cultural heritage, and personal taste. Actually the reaction of different people to the same odor can vary tremendously. Olfaction is, in this sense, very unpredictable, or saying it with Forrest Gump: you never know what you’re gonna get.

The use of aromatic plants and herbs for different purposes is very ancient; humans have been always fascinated from the odor exhaling from burning substances and raw materials found in nature. Fragrant aromas were used for culinary, cosmetic, and religious purposes in many ancient cultures. Moreover, several plants have active compounds useful for medical purposes as well, aside from the most famous venoms found in nature. And do you know aspirin? For centuries people were used to chew a mixture made from willow (Salix alba) bark in order to alleviate headache, fever and inflammation. Between the 18th and the 19th Centuries people discovered that the actual compound responsible for that was a molecule present in the willow bark, and they called it salicin. Later on, chemists were able to synthetize it making possible to produce a bigger amount of substance for a good price. Finally, they discovered a new molecule, the acetyl salicylic acid, quite similar to salicin but giving less side-effect. The aspirin was born.

Many plants have pharmacological effects, but is it so for their odors as well? Do essential oils have therapeutic effects?

In 1837 a book was published in France with the title Aromathérapie – les huiles essentielles hormones végétales” (éd. Librairie des sciences Girardot, 1937). The author, René-Maurice Gattefossé, was a chemist convinced in the healing power of essential oils, which, by the way, were also produced in the laboratories of the cosmetics firm owned and named after his family. He is considered the father of the aromatherapy, a practice that proposes that plant-based aromas have the ability of influence mood and sense of wellbeing, although it is not scientifically supported. On the other hand, in 1982 the Sense of Smell Institute coined the term “aromachology” to refer to scientific studies on the psychological effects of odor stimulation and the mechanisms behind it.

We should first note that often under the “aromatherapy”-umbrella follow different kind of things: often people using herbal remedies and other plant-derivate preparation refer to it as aromatherapy, although they are not, but they are often administered in combination with essential oil massage and odor inhalation (the actual aromatherapy treatment). When we talk of “herbal preparation” we usually refer to some preparation made from plants, where actually an active compound is present, which is ingested and assimilated in the body. Meaning, as any pharmacological compounds, it enters the bloodstream and has a specific effect in the body. Different is the issue regarding essential oils, which are claimed to be active thorough the olfactory system, thus sniffing them would be enough to get some effect.

The question has been largely explored from several scientists trying to demonstrate if there is any evidence for this. One of the most studied is lavender, which is claimed having anti-stress, relaxing effects. In some experiments, scientists have shown that actually lavender and linalool, the principle component of lavender oil, act inhibiting glutamate binding in the brain, and therefore having a sedating effect. It also modulates the activity of cyclic adenosine monophosphate (cAMP) at the postsynaptic side, which also results in a decrease of cAMP activity and sedation. But, we should note that those experiments were conducted on rats and guinea pigs: the effect was measured mainly on isolated sections of ileum and uterus.

As we already said a compound can have a pharmacological effect if it enters the bloodstream and therefore can reach its target. This means that a volatile compound should be absorbed by the olfactory mucosa or respiratory system and be traceable in the bloodstream. In the case of aromatic compounds, experiments in rodents show that after inhaling them, they were detected in the bloodstream. On the other hand, other experiments testing for cedrol, the main component of cedar wood oil, in rats with compromised olfactory ability was still possible to find the substance in the bloodstream, suggesting the mechanism of action does not go for the olfactory system. Moreover, we should consider that most of those studies have been conducted on animal using more concentrated and high doses respect what is usually done with humans, and most important, the oils are usually administered per ingestion or injection, therefore the mechanism of action is definitely different. In humans there are no scientific studies reporting the presence of aromatic compound in bloodstream after inhalation.

Usually a pharmacological compound needs around 20 min to be active, the time to be absorbed and metabolized, but people receiving aroma-treatments often report an almost instantaneous effect, suggesting a psychological more than a strictly pharmacological mechanism.

A possibility explored in a study conducted at the University of Vienna in 2004 is the action of essential oil via dermal absorption. Researchers measured the effect of 20 min abdominal massage with (-) linalool assessing several physiological and psychological parameters. The results show that after 20 min massage the blood pressure and heart rate decreased and the patients reported relaxation. Scientists consider it could be possible that in this case a pharmacological weak effect is reached via dermal absorption of the compounds. On the other hand, other experiments have shown that a massage “alone”, without essential oils, is already able to induce relaxation.

As we said at the beginning scents can have strong effect on our feelings and mood, which can affect in some degrees our physiological status. Meaning and emotional connotations are also very important as well as context and ambience. When we are undergoing a body massage with essential oils, the type of odors which are used, the skills of the practitioner, and the general atmosphere can make a big difference on the “success” of the treatment: if for any other reason we dislike the situation, even a full bunch of lavender oil would not make any better, even worse if people do not like lavender at all 😉

An interesting experiment in 2004 showed how expectation of the patient can change the way an odor is perceived. In this study were involved 90 females from a college campus. Scientists administered to the subjects three different essential oils: lavender, neroli and an odorless compound as placebo. They monitored physiological effects as blood pressure, heart rate and skin conductance, and psychological self-assessments on mood and feelings. They presented the odor randomly as “stimulating” or “relaxing” and they saw that, independently from the odors, people reaction was consistent with the descriptor: when lavender was presented as a “stimulating” odor, the subjects experienced stimulation; when lavender was presented as “relaxing”, the effects were also consistent. The same was obtained with the odorless compound, suggesting that the major role was played by the personal expectation and not from the odor per se.

 

Bonus

Further references:

  • Campenni, C. E., Crawley, E. J., & Meier, M. E. (2004). Role of suggestion in odorinduced mood change. Psychological Reports, 94, 1127–1136.
  • Chen, D., & Dalton, P. (2005). The effect of emotion and personality on olfactory
    perception. Chemical Senses, 30, 345–351.
  • Elisabetsky, E., Marschener, J., & Souza, D. O. (1995). Effects of linalool on
    glutaminergic system in the rat cerebral cortex. Neurochemistry Research, 20,
    461–465.
  • Field, T., Morrow, C., Valdeon, C., Larson, S., Kuhn, C., & Schanberg, S. (1992).
    Massage reduces anxiety in child and adolescent psychiatric patients. Journal of
    the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 31, 125–131.
  • Herz, R. S. (2001). Ah, sweet skunk: Why we like or dislike what we smell. Cerebrum, 3(4), 31–47.
  • Herz, R. S., Beland, S. L.,&Hellerstein,M. (2004). Changing odor hedonic perception
    through emotional associations in humans. International Journal of Comparative
    Psychology, 17, 315–339.
  • Herz, R.S. (2009). Aromatherapy Facts and Fictions: A Scientific Analysis of Olfactory Effects on Mood, Physiology and Behavior. International Journal of Neuroscience,119:2,263 — 290.
  • Lis-Balchin, M., & Hart, S. (1999). Studies on the mode of action of the essential oil of
    lavender (Lavandula angusifolia P. Miller). Phytotherapy Research, 13, 540–542.

Il gusto dell’acqua – If the mouse drinks light

Water

Che sapore ha l’acqua? Certo dipende, perché naturalmente a seconda dell’area geografica in cui ci troviamo, laghi, fiumi, pianure, montagne – bere, per esempio, l’acqua di Bergamo, vicino alle Orobie, è decisamente diverso dal bere quella delle zone sul Carso o ancora da quella della pianura padana (esempi non casuali dal mio catalogo esperienziale 😀 ). Però a parte questo, l’acqua “da sola”, priva di tutti questi “condimenti” geologici e ambientali, che sapore ha? Se dovessimo assaggiare dell’acqua demineralizzata per esempio, saremmo capaci di percepire alcuna sensazione o sapore caratteristici?

Le rane per esempio, hanno recettori per l’acqua, ma anche nelle pecore e nei gatti l’acqua evoca specifiche risposte nei nervi faciali che innervano la cavità orale. E pure il moscerino della frutta Drosophila melanogaster, che ha per molti aspetti un sistema gustativo analogo a quello dei mammiferi, ha recettori per l’acqua. Gli scienziati cercano perciò già da un po’ di capire quanto questa cosa sia diffusa negli animali e se nei mammiferi, oltre ai recettori per il gusto che già conosciamo – salato, dolce, amaro, acido e sapido (umami) – ce ne siano di specifici per l’acqua, vista la sua importanza per la sopravvivenza. Uno studio pubblicato pochi giorni fa (29 maggio 2017), sulla rivista scientifica Nature Neuroscience, suggerisce di sì, almeno nei topi.

La lingua allo specchio

Vi siete mai guardati la lingua? Viene più facile se, per esempio, avete bevuto del succo di mirtillo, o potete provare anche con un ghiacciolo vista la stagione, perché lasciano la lingua “colorata” ed è così più facile osservarne la superficie. Perlustratela e dimenticate l’immagine dei vecchi libri con la lingua divisa in zone a seconda del gusto (purtroppo la si trova ancora in alcuni libri e in rete ma è sbagliata!). Vi troverete di fronte a una distesa irregolare di piccole formazioni papilliformi, le papille gustative. Queste sì, hanno forme diverse distribuite in zone diverse: le fungiformi verso la punta e il centro della lingua, le foliate ai lati più posteriormente e le circumvalate sul fondo. In tutte però ci sono delle strutture, spesso fatte “a calice” diciamo, formate da cellule specializzate per riconoscere i sapori. Ogni calice è formato da gruppi di diverse cellule recettoriali ognuna sensibile a uno dei “gusti”- base, e perciò ogni papilla è in grado di rispondere più o meno a tutti i sapori indipendentemente do dove sia posizionata sulla lingua.

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Cellule recettoriali gustative. Da: Yarmolinsky et al., Cell 139, October 16, 2009.

Alcuni recettori rilevano il gusto acido. Su queste cellule ci sono proteine specializzate, una famiglia di recettori TRC, che si attivano appunto quando mangiamo cose dal sapore acido. Non si sa ancora bene come funzionino, la presenza di protoni (H+) in soluzione attiva questi recettori-canale e si pensa reagiscano quindi al cambio di pH circostante. Quando i recettori vengono attivati, il segnale viene trasmesso alle terminazioni nervose della lingua, in particolare alla chorda tympani, un ramo del nervo faciale (il nervo cranico VII) che innerva la parte anteriore della lingua e riceve le informazioni gustative da mandare al cervello.

I ricercatori hanno scoperto che questi recettori per l’acido vengono attivati anche dall’acqua. Il meccanismo di funzionamento non è ancora del tutto chiaro, ma i dati raccolti fino ad ora danno alcune indicazioni. Una delle ipotesi più gettonate al momento è che il passaggio dell’acqua sulla lingua rimuoverebbe lo strato di saliva sulle papille. Siccome la saliva è fatta al 99% di acqua, ma contiene anche diverse altre sostanze, sali ed enzimi, e ha un pH caratteristico, quando viene “sciacquata via” dall’acqua le cellule delle papille si ritrovano a contatto con un liquido, e un pH, diversi, e questo cambio attiverebbe i recettori. In questo modo l’acqua può essere percepita dal cervello immediatamente senza dover aspettare i segnali del resto del sistema digerente.

Se i topi bevono la luce

Come hanno fatto i ricercatori a scoprire questo fatto? C’erano già diverse evidenze scientifiche e dati che supportavano l’ipotesi di recettori sulla lingua sensibili all’acqua. Come prima cosa, quindi, bisognava accertarsi di questa cosa, e verificare la presenza di recettori capaci di rispondere all’acqua in modo specifico: testando i diversi recettori gustativi, nei topi, i ricercatori hanno osservato che solo quelli per l’acido, e non gli altri, si attivavano con l’acqua, ma non con altre sostanze simili. Inoltre, anche la chorda tympani riceveva quello stimolo, confermando che la presenza di acqua veniva effettivamente trasmessa per via gustativa. A questo punto c’era da verificare se davvero i recettori per l’acido fossero i responsabili. I ricercatori hanno fatto perciò un’altra serie di esperimenti osservando che nei topi privi di questi recettori la risposta all’acqua non c’era e gli animali non riuscivano a distinguere tra l’acqua e un’altra sostanza oleosa. Ora mancava un altro tassello: se quei recettori erano davvero capaci di attivarsi con l’acqua, ciò significava che una volta attivati, l’animale avrebbe dovuto comportarsi come se stesse bevendo, cioè percependo l’acqua. E gli scienziati hanno verificato proprio questo. Con la luce.

Con una tecnica chiamata optogenetica è possibile rendere specifiche cellule sensibili alla luce, un po’ come i recettori per la vista, e si possono così attivare artificialmente. In questo caso i topi avevano i recettori TRC per l’acido modificati in modo da poter essere attivati con la luce. Se questi recettori erano davvero i resposabili della sensazione per l’acqua, i topi, stimolati sulla lingua con la luce, avrebbero dovuto avere la stessa reazione che se stimolati con l’acqua. E ha funzionato proprio in questo modo. I topi avevano a disposizione un abbeveratore modificato che invece di rilasciare acqua emetteva luce quando l’animale andava a leccare per bere. I topi leccavano dalla bottiglia come se stessero bevendo normalmente e percepivano la sensazione gustativa dell’acqua anche se la lingua era stimolata solo con la luce. Questo esperimento ha così confermato che effettivamente i recettori TRC per l’acido mediano anche le risposte all’acqua. Si tratta ora di capire meglio come funziona questa attivazione.

Sensing water

If we take a closer look at our tongue we will discover a fascinating landscape covered by hundreds papillae of different shapes. There is where actually the sense of taste starts, where begins the rich savory feeling of our meal, the acidity of a soft drink, the bitterness of our black coffee, the sweetness of our favorite cake, or the effects of a too generous spoon of salt dropped in our soup. There is where we can taste water too. How does the water taste like?

It was already known from scientist that invertebrates like Drosophila melanogaster has specific receptors to sense water, and in frog, sheep, and cat,  the facial nerves who receives taste information get activated by water as well. Now it turns out that receptors TRC for sour taste are able to detect water.

taste-body

The mouse who drank water

Scientists just find that on a study published last month on the scientific journal Nature neuroscience. How does it work? They recorded the physiological activity of the facial branch nerve for taste, chorda tympani, during water stimulation; moreover they observed that the TRC-receptors for sour taste were specifically activated by water. The second step was to test for these receptors, therefore using genetically modified mice, scientists observed that animals without those receptors where unable to detect water and they could not distinguish water from other oleose substances. Finally, researcher tried to stimulate such receptors artificially to test if they were able to induce in animals a “drinking” behavior like drinking-water. And it worked out. Using a genetically modified mouse who has sour-receptors TRC sensible to light (like, say, sight receptors), scientists could activate them through light instead of using water. The mouse had a modified beverage disposable releasing light, not water: the animal approached and licked the bottles drinking “normally” and experiencing “water-taste”, although the tongue was stimulated by light only. That could prove that sour receptors actually mediate water-detection as well, in a taste-like manner.

Regarding the mechanism and how this activation works there are still some speculations. One of the most accepted hypotheses is that the receptors sense the change of pH in their environment, which is normally made by the characteristic saliva  composition, and pH. When we drink, water transiently washes out the saliva layer that covers the taste buds and the receptors “feel” that change sending a signal to the brain. It is a mechanism efficient and easy for the body to detect quickly the presence of water, but we need now further prove.

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